Ieri pomeriggio Lorenzo De Silvestri è stato ospite del webinar Dentro le società sportive: leadership, squadra e performance oltre il campo, organizzato dalla Bologna Business School. Durante una lunga chiacchierata il capitano rossoblù ha affrontato diversi temi, condividendo la sua esperienza da figura carismatica all’interno dello spogliatoio e alcuni aneddoti personali sulla sua carriera. Di seguito tutte le sue dichiarazioni.
La svolta emotiva – «Il punto di partenza del percorso che ha portato ai risultati di questi ultimi anni è stata l’esperienza umana condivisa durante la malattia di Mihajlovic. Il gruppo si è unito, ha cominciato a conoscersi meglio anche fuori dal campo e si è stretto intorno alla città, e questo poi ha portato alla crescita che ci ha condotto a centrare dei risultati storici».
L’alchimia tra squadra e città – «A Bologna ho trovato pacatezza, educazione e rispetto. Allo stadio può arrivare qualche critica per una brutta prestazione, ma la vita in città resta tranquilla anche quando le cose non vanno al meglio. Si è creata una bella simbiosi con la piazza, credo che la gente abbia capito che siamo un gruppo di persone sano. Tra di noi non ci sono invidie, chi rimane in panchina ha stima e rispetto di chi gioca e non c’è il fenomeno di turno, quindi la nostra forza è il gruppo».
Siamo tutti protagonisti – «Il motto del Bologna We are One significa che siamo una cosa sola non unicamente tra giocatori e società, ma anche con tutti i dipendenti del club. Il presidente Saputo è veramente un fenomeno nel far sentire tutti importanti ed è giusto che sia così, perché noi giocatori senza tutte le figure professionali che ci gravitano attorno non potremmo fare al meglio il nostro lavoro. Ci sono i fisioterapisti e i preparatori, ma non solo: per esempio a Casteldebole abbiamo la mensa, facciamo colazione e pranziamo lì, e questo significa che possiamo essere seguiti dal nostro nutrizionista. Nel corso degli anni anche gli staff sono cambiati moltissimo: una volta erano composti da allenatore, vice, preparatore atletico e preparatore dei portieri, mentre oggi prima delle partite capita di vedere in campo degli staff che sono quasi più numerosi delle rose».
Capitano dentro e fuori dal campo – «Cerco di mettermi a disposizione dei miei compagni come posso. Quando arrivano i giocatori nuovi li inserisco nel gruppo WhatsApp della squadra, consiglio loro determinati posti e zone di Bologna da visitare o dove andare a mangiare, e sono convinto che questo gli faccia sviluppare un senso di appartenenza verso la città che poi li fa performare meglio in campo. In qualità di capitano, poi, sono il primo referente della società per le questioni di campo: ho un rapporto personale con tutti i dirigenti, mi sembra giusto e doveroso considerando che sono le figure a cui noi dobbiamo i nostri stipendi».
Gli errori da evitare – «Una delle responsabilità che hai come capitano è quella di rimanere te stesso senza forzare nulla, ma la maggiore è forse quella di sbagliare atteggiamento il meno possibile, e chiedere immediatamente scusa quando non ci riesci. Sono cose che si apprendono anche con l’esperienza. Io ad esempio ero molto giovane quando me ne andai dalla Lazio e oggi rimpiango di aver dichiarato, ai tempi, che me ne stavo andando per colpa del presidente Lotito. In quel modo ho danneggiato la società e il gioco delle parti, perché quando un club decide di cedere un giocatore cerca di ottenere il massimo dal prezzo del cartellino, e dichiarazioni del genere certamente non aiutano».
Un modello da seguire – «Il mio riferimento di come deve comportarsi un capitano è stato Dario Dainelli, conosciuto ai tempi della Fiorentina quando avevo poco più di vent’anni. È stato il primo giocatore che ho visto preoccuparsi più degli altri che di se stesso e curare i rapporti col gruppo anche fuori dal campo: ha sempre avuto un comportamento ineccepibile, anche quando rimaneva in panchina e doveva cedere la fascia. Quando sono diventato capitano ho pensato di voler interpretare il mio ruolo esattamente in quel modo, puntando sull’empatia e sulla comunicazione, e non come altri capitani vecchio stampo che ho avuto, che vagliavano i più giovani in maniera piuttosto dura. A mio parere la leadership aggressiva può forse portare a dei risultati nell’immediato, perché ha il potere di generare uno shock potenzialmente positivo, ma sul lungo periodo io preferisco sempre il soft power».
Il peso delle pressioni… – «Bisogna saper entrare nella testa dei più giovani, che certamente sono dei privilegiati ma convivono comunque con pressioni gigantesche, ad oggi persino amplificate dai social. L’impatto con la notorietà non è semplice, anche i tifosi dovrebbero provare a comprendere queste dinamiche ma mi rendo conto che non sia semplice, perché loro possono vedere soltanto il calciatore e non hanno modo di scorgere la persona dietro al professionista».
…e le strade per rialzarsi – «Io stesso so cosa significa passare dei brutti momenti a causa della pressione. A 24-25 anni mi sono rivolto ad un mental coach perché le difficoltà e le delusioni mi avevano quasi convinto a smettere. Quel percorso è stato fondamentale, così come lo è stato il confronto coi miei amici. Un giorno tornai a Roma distrutto per le critiche e il poco spazio che stavo trovando alla Sampdoria, mi sfogai con loro e confidai che stavo pensando di smettere di giocare: mi risposero che stavo vivendo sulla mia pelle il sogno della loro vita, che non dovevo permettermi di buttarlo all’aria e che sarei dovuto tornare a Genova e lavorare sodo per dimostrare di meritare quel posto. È stato un insegnamento di vita pazzesco di cui li ringrazio ancora adesso, perché ricordo che mi diede una carica enorme».
Un rammarico divenuto opportunità – «L’anno scorso essere escluso dalla lista UEFA e non poter giocare la Champions sportivamente mi ha fatto male, non lo nego. Ho fatto una riflessione su me stesso e mi sono detto che però poteva diventare un’ulteriore occasione per essere un buon esempio per i giovani, perché è facile essere un punto riferimento quando tutto va bene, lo è meno quando ti viene tolto qualcosa».
L’equilibrio perfetto di Italiano – «Ho un bellissimo rapporto con Italiano. Quando bisogna affrontare alcune situazioni complicate, come può essere la gestione emotiva di un giovane che sta trovando poco spazio, il mister si confronta con me perché sa che ho il polso dello spogliatoio e posso dargli dei consigli. Allo stesso tempo non mi sconta nulla, e se in allenamento ha qualcosa da rimproverarmi lo fa davanti a tutti. È un equilibrio difficile da trovare, perché non è vero che i giocatori sono tutti uguali ma non bisogna nemmeno fare preferenze o avere un eccessivo rispetto dei singoli più maturi, altrimenti i calciatori finiscono col non rispettarti, in primis proprio i più esperti».
Nuove vesti, stessa curiosità – «Mai dire mai, ma in futuro mi vedo più come dirigente che come allenatore, e certamente mi piacerebbe rimanere a Bologna. Il calcio mi ha dato tanto, vorrei poter restituire qualcosa. Ho grande esperienza di campo, quindi potrei aiutare il pool di dirigenti nella lettura delle situazioni emotive che riguardano i calciatori, ma è chiaro che se vorrò intraprendere quella carriera dovrò formarmi sotto tutti gli altri punti di vista. Il mio sogno sarebbe quello di poter curiosare in ogni settore della società, magari facendo un anno nel settore giovanile, uno nell’area scout, uno al fianco del direttore sportivo… In questo modo potrai accrescere trasversalmente le mie competenze».
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Foto: Alessandro Sabattini/Getty Images (via OneFootball)
