Prendendo in prestito le parole di un allenatore molto divisivo ma senza dubbio sagace, «nel calcio ci sono le categorie, giocatori che vincono e giocatori che non vincono mai». Juan Miranda, terzino classe 2000 nativo di Olivares, in Andalusia, fa sicuramente parte del primo gruppo: cresciuto fra le giovanili del ‘suo’ Betis e del Barcellona, coi blaugrana si è aggiudicato una Youth League, una Liga e una Supercoppa di Spagna, e dopo essere rientrato nella Siviglia biancoverde ha alzato al cielo una Coppa del Re. Poi, una volta passato al Bologna, ha subito conquistato una Coppa Italia, trofeo che nella bacheca del club mancava da 51 anni. In parallelo, un percorso nelle varie Nazionali spagnole che l’ha visto aggiungere al proprio palmarès 2 Europei Under 19, un Europeo Under 17, un oro ai Giochi del Mediterraneo e, dulcis in fundo, un oro olimpico a Parigi nel 2024. Scusate se è poco. La sua stagione d’esordio in maglia rossoblù era partita un po’ a rilento per poi esplodere in una lunga serie di ottime prestazioni, fino alla trionfale notte di Roma dello scorso 14 maggio, e lo stesso sembra stia accadendo in questa seconda annata: qualche prestazione opaca, qualche panchina, poi il magico pomeriggio di Parma a restituirci il vero Miranda, quello che col giusto mix di qualità e fisicità è capace di dettare legge sulla fascia sinistra. È proprio Juan il protagonista della nostra intervista di oggi a Casteldebole, dove la squadra di Vincenzo Italia, attualmente quinta in classifica a -3 dalla vetta, sta lavorando sodo per preparare al meglio l’insidiosa trasferta di Udine.
Juan, è lecito dire che oggi il Bologna è la squadra più bella d’Italia? «Non lo so, in campo facciamo del nostro meglio e di sicuro siamo in un momento molto positivo (sorride, ndr). Posso dire che il Bologna è più di una semplice squadra, è una famiglia che parte dalla società e si estende fino ai tifosi, e penso che questa unione così forte tra tutte le componenti si percepisca».
A tuo avviso qual è il vostro miglior pregio, ciò che vi rende unici? «L’unicità sta proprio nel fatto di essere degli amici che indossano la stessa maglia e poi con la stessa naturalezza si ritrovano a chiacchierare davanti ad un caffè, combattiamo insieme nei momenti difficili e poi ci godiamo quelli belli».
Dove, invece, pensi che ci siano i margini per migliorare ancora? «Di migliorare non si finisce mai, ogni giorno ci alleniamo per questo. Preferisco guardare a me stesso, consapevole di dover imparare tanto in fase difensiva, infatti penso si noti che preferisco attaccare (ride, ndr). Io e i miei compagni abbiamo la fortuna di lavorare con un grande tecnico come Italiano, uno che non lascia nulla al caso, e sappiamo che il suo calcio offensivo va adeguatamente sostenuto e ‘protetto’ da chi gioca dietro».
Giusto ragionare di partita in partita, ma nello spogliatoio vi siete dati qualche obiettivo intermedio? «Guardando ai traguardi raggiunti dal club nelle ultime due stagioni, vien da sé che l’obiettivo primario sia continuare a disputare le coppe europee. E poi chissà, abbiamo a disposizione quattro competizioni e tutti vorremmo fare qualcosa in più rispetto all’anno scorso, che già è stato magnifico: ci teniamo a rendere ancora felici i nostri tifosi».
Per quanto riguarda in particolare l’Europa League, siete fiduciosi sul passaggio del turno? «Sappiamo che ci attendono quattro partite fondamentali, possiamo e dobbiamo fare meglio, anche fin qui non ci è girata nemmeno benissimo. Da Udine in poi si aprirà una settimana molto importante e impegnativa: ora la nostra testa è su Udine ma poi dovremo dare un segnale forte contro il Salisburgo, perché in coppa il margine d’errore è più ridotto rispetto al campionato».
La recente sequela di infortuni sta iniziando a preoccuparvi, alla luce di un calendario pieno d’impegni? «Gli infortuni fanno parte del calcio e rappresentano un problema per tutte le squadre. Certo, sarebbe stato meglio non averne così tanti tutti insieme, ma disperarsi non serve: abbiamo una rosa ampia e di qualità e un allenatore molto bravo nella gestione delle rotazioni, l’identità di questa squadra racconta che chiunque vada in campo la prestazione generale non cambia e sarà così anche stavolta».
Nel calcio di oggi si gioca e si viaggia troppo o per voi professionisti la situazione è ancora gestibile? «A me piace giocare, anche quando i match sono ravvicinati, meglio la partita dell’allenamento (ride, ndr). In Italia, per esempio, mi sono abituato a scendere in campo anche nel periodo natalizio, cosa che in Spagna non accade. E poi è il nostro lavoro, siamo professionisti e bisogna per forza adeguarsi».
Altra piccola curiosità: saresti favorevole al tempo effettivo o pensi che un po’ di malizia, anche nel guadagnare secondi, faccia parte di questo sport? «Tematica non facile da affrontare. Molto spesso chi sta vincendo tende a perdere tempo, per qualcuno è proprio una strategia da applicare in certi frangenti: a volte lo fai, a volte lo subisci. Penso che nel calcio sarà sempre così, l’importante però è non esagerare con sceneggiate e altri comportamenti poco corretti».
A Parma, sotto il diluvio, hai sfoderato una prova super e segnato un gran gol: lì è svoltata la tua stagione, dopo un inizio altalenante? «Era da un po’ di anni che non svolgevo a pieno la preparazione estiva a causa di impegni internazionali, ho spinto forte e poi ci ho messo un po’ a trovare brillantezza sul piano atletico. Ora mi sento bene e in effetti nelle ultime settimane sono andato molto meglio: voglio tornare ad essere il Miranda visto l’anno scorso ma aumentando il numero di assist e soprattutto di gol, non intendo fermarmi a quello di Parma (sorride, ndr)».
Come ti trovi con mister Italiano? Arrivando da una determinata scuola calcistica, hai faticato ad adattarti ad un calcio più aggressivo e verticale? «Quello spagnolo è un calcio più di palleggio ma comunque offensivo, infatti so che il nostro mister lo osserva con attenzione e lo apprezza molto. In Italia la parte tattica è ancora più marcata, così come la fisicità, ma ritengo di essermi adattato bene. Prima di venire qui avevo parlato con German Pezzella, ex giocatore di Italiano alla Fiorentina, e mi aveva detto ottime cose di lui: oggi posso confermarle al 100%, in particolare mi piace il modo in cui coinvolge noi terzini nelle manovre d’attacco».
Dopo l’oro olimpico del 2024 e la crescita in maglia rossoblù, pensi di meritare una nuova chiamata dalla Nazionale maggiore spagnola? «La concorrenza è decisamente nutrita, nel mio ruolo ci sono diversi giocatori bravissimi, ma non perdo la speranza perché indossare la maglia del proprio Paese è il massimo e vorrei rivivere quelle emozioni. So che tutto passa dalle mie prestazioni e dai miei numeri col Bologna, e in tal senso la Nazionale è un ulteriore stimolo a fare sempre meglio».
C’è un terzino sinistro che consideri il tuo modello o che comunque osservi con particolare attenzione? «A Barcellona mi allenavo con Jordi Alba, che per i giovani terzini spagnoli come me è sempre stato la principale fonte d’ispirazione: in quel periodo ho avuto modo di apprendere tanto da lui e constatare le sue qualità, non solo come calciatore ma in primis come persona. Oggi non ho un vero e proprio punto di riferimento: in Serie A mi piaceva parecchio Theo Hernandez, davvero forte, e fra gli italiani apprezzo Dimarco e Cambiaso».
Cosa si prova a vincere un trofeo con un’outsider? Tu ci sei riuscito prima col Betis e poi col Bologna… «Detto che il Bologna sta facendo le cose talmente per bene che ormai non può più nemmeno essere considerato tale, senza dubbio è una sensazione speciale e bellissima, perché quasi nessuno se l’aspetta e invece alla fine tu sei lì, a stupire tutti con prestazioni come la nostra contro il Milan a Roma. Quella dell’Olimpico rimarrà per sempre una notte iconica e indimenticabile che mi riporta al concetto di famiglia espresso in apertura: circondati da un tale amore, ci siamo sentiti parte di qualcosa molto più grande di noi e del trionfo stesso».
A proposito di Betis, puoi descriverci l’emozione di giocare e addirittura segnare un gol storico per la propria squadra del cuore? Magari qui ne hai parlato con Ravaglia… «Ecco, qui la spiegazione si fa quasi impossibile, effettivamente solo Federico mi può capire (sorride, ndr). È stato il giorno più bello della mia vita finora. E quando ho visto il pallone entrare (Miranda segnò il rigore del definitivo 5-4 contro il Valencia in finale, ndr) ho provato una gioia immensa non tanto per me, quanto per la mia famiglia, i miei amici più cari, l’intero popolo del Betis: allo stadio c’erano tutti ma proprio tutti, e quella coppa l’abbiamo vinta insieme a loro».
Oltre alla Liga hai avuto modo di conoscere anche la Bundesliga: sotto quali aspetti la Serie A è più indietro rispetto a questi campionati? «In realtà la Serie A mi aveva sempre affascinato, e una volta che l’ho toccata con mano non sono rimasto deluso, anzi: la qualità generale è buona, la parte tattica davvero interessante pur nella sua complessità, e ci sono tante squadre a contendersi i piazzamenti europei, cosa che rende ogni stagione incerta e appassionante. Purtroppo sia l’Italia che la Spagna sono indietro rispetto alla Germania per quanto riguarda le strutture, ma diversi stadi italiani fra cui il Dall’Ara conservano un fascino unico».
Una parte del tuo percorso giovanile l’hai vissuto nella gloriosa Masia del Barcellona: cosa ti hanno lasciato quel posto e quegli anni? «Parliamo della miglior accademia del mondo, dove si viene formati prima come persone e poi come calciatori, dove lo studio riveste un ruolo fondamentale, dove ci si sente come a casa ed esprimersi al meglio attraverso il calcio diventa più facile. Tutto ciò che ho imparato e costruito lì me lo ritrovo ancora oggi, compresi alcuni solidissimi legami d’amicizia».
Poi un giorno ti sei ritrovato ad allenarti con Messi… «Con lui e con tanti altri fenomeni. E la cosa che più mi ha colpito, al di là della classe e dell’infinito talento, è stato il loro spessore umano: tutte persone splendide, gentili e disponibili, che mi hanno fatto sentire protetto e benvoluto fin dal primo giorno».
C’è qualche comportamento dei tifosi italiani che cambieresti con quello dei tifosi spagnoli? «In verità no, quantomeno se faccio un paragone tra i tifosi del Betis e quelli del Bologna: i punti di contatto sono numerosi, a cominciare dalla correttezza e dall’affetto sconfinato, si tratta di tifoserie che muovono migliaia di persone anche in trasferta. Non è un caso che i miei amici di Siviglia, quando vengono a trovarmi, vogliano sempre andare in Curva Bulgarelli (sorride, ndr)».
In cosa ti ha piacevolmente sorpreso la città di Bologna? «Mi piace tutto tantissimo, e non sono parole di circostanza. Anche in questo caso trovo delle similitudini con Siviglia: città non troppo grande, bella e accogliente, specie nella zona del centro. Certo, il clima è un po’ meglio in Andalusia, ma qui in compenso c’è la pasta: ne vado matto (ride, ndr)».
È noto il tuo amore per la pesca: qui in zona hai trovato qualche posto in cui praticare questa attività? «Purtroppo no, la vedo un po’ difficile… A tal proposito, se qualche esperto di pesca vuole contattarmi su Instagram, accetto volentieri consigli (sorride, ndr). Ogni volta che torno in Spagna ne approfitto per andarci con qualche amico perché è un’attività che mi piace, mi rilassa e mi regala grande serenità».
Dopo il trionfo del 14 maggio a Roma, cosa ti aspetti di pescare nelle acque della stagione 2025-2026, per te stesso e per il BFC? «Nel calcio e nello sport in generale l’obiettivo dev’essere quello di migliorare sempre, senza mai accontentarsi. Come detto, io punto ad arricchire le mie statistiche, e voglio che la squadra continui a giocare le coppe. Quanto poi all’attuale Europa League, ritengo che si possa fare parecchia strada, ma bisognerà dimostrarlo sul campo».
A Istanbul ci sei mai stato? «No (sorride, ndr). Ma Istanbul adesso è lontanissima, prima ci sono Udine e tante altre tappe lungo il cammino. Lavorando bene, però, nessun traguardo è inavvicinabile».
Simone Minghinelli e Riccardo Rimondi
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Foto: Alessandro Sabattini/Getty Images (via OneFootball)
