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Spada: “La mia carriera in Colombia prosegue al DIM, vogliamo il settimo scudetto. Lucumí diventerà un top player e il Bologna un modello da seguire”

Spada: "La mia carriera in Colombia prosegue al DIM, vogliamo il settimo scudetto. Lucumí diventerà un top player e il Bologna un modello da seguire"

Ph. dimoficial.com

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Nel gennaio 2022, quando lo intervistammo per la prima volta, Federico Spada era appena diventato direttore sportivo del Fortaleza, società di seconda serie colombiana, dopo quasi un decennio passato a svolgere attività di scouting sempre in Colombia per diversi club europei, in primis l’Udinese. Dodici mesi dopo il talentuoso dirigente classe 1991, bolognese doc, è stato nominato d.s. del Deportivo Independiente Medellín, meglio noto come DIM, uno dei club più importanti del Paese sudamericano. E così oggi l’abbiamo ricontattato per parlare della sua brillante carriera, che sta proseguendo con merito a suon di tappe bruciate, della crescita del fútbol colombiano e delle difficoltà del calcio italiano, e ovviamente del Bologna, la squadra della sua città natale, dove il cafetero Jhon Lucumí ha preso in mano le redini del reparto difensivo. Buona lettura…

Federico, è un piacere ritrovarti: come vanno le cose lì? «Tutto bene, proprio ora siamo in aeroporto per partire verso Cali, dove domani avremo la partita di campionato contro il Deportivo. E invece a Bologna che aria si respira?».

Squadra rinnovata e ambiente carico, le aspettative si sono alzate. «Io penso che il Bologna possa continuare a fare delle belle cose, dal mercato sono arrivati giocatori di valore e soprattutto è rimasto Motta, un allenatore di grande talento: ne sono felice».

Riesci almeno un po’ a seguire i rossoblù e più in generale la Serie A? «Ogni weekend faccio il possibile per vedere almeno tre-quattro partite, incluso il Bologna, anche se tra gli impegni con la Prima Squadra e quelli legati al settore giovanile non è semplice».

Per curiosità, a livello professionale sei mai entrato in contatto col Bologna? «Il capo scouting Dario Rossi (figlio di Delio, ex allenatore rossoblù, ndr), uno dei migliori in Italia, è un mio caro amico, con lui ho contatti abbastanza frequenti perché è sempre molto attento ai talenti colombiani e più in generale sudamericani. Inoltre al Preolimpico Under 23 del 2020 ho incontrato proprio qui in Colombia l’attuale d.s. Marco Di Vaio: il Bologna in termini di scouting è molto avanti, negli ultimi anni la società ha svolto un lavoro particolarmente apprezzabile in tal senso, cosa che mi fa piacere sia da addetto ai lavori che da tifoso».

Com’era cominciato il tuo percorso e perché proprio la Colombia? «Nel 2011, una volta terminate le scuole superiori, ho sostenuto e superato a Roma l’esame per diventare agente FIFA, quindi ho iniziato a bussare a diverse porte. A fine 2012 sono stato messo in contatto con l’agenzia di Davide Lippi e ho manifestato la mia volontà di concentrarmi su Paese privo di scout italiani: visto che il livello del calcio colombiano e dei giocatori colombiani in Europa era interessante, ho deciso di partire e andare alla scoperta proprio della Colombia. Col senno di poi, è stata un’intuizione felice. Sono arrivato nel gennaio 2013 e dopo due settimane la Nazionale Under 20 ha vinto il Sudamericano, mentre la maggiore ha iniziato a giocarsi la possibilità di tornare al Mondiale a distanza di sedici anni: alla fine ci è riuscita e da quel momento l’intero movimento ha iniziato a crescere molto».

E la tua crescita è andata di pari passo… «Ho appunto sostenuto l’esame FIFA perché in quel periodo era la maniera più semplice, si fa per dire vista la difficoltà del test, per entrare nel calcio, ma il mio obiettivo è sempre stato quello di lavorare in un club. Una volta sbarcato in Colombia ho lavorato per sette anni nella scuola calcio locale dell’Udinese, l’unica che i bianconeri hanno nel mondo, fungendo anche da scout internazionale per la stessa Udinese, il Watford e il Granada, fino a quando il Fortaleza non mi ha fatto un’offerta per diventare il loro direttore sportivo».

Ti è bastata una stagione per salire ancora di livello, ora il tuo presente si chiama Deportivo Independiente Medellín. «Innanzitutto ci tengo a ringraziare il Fortaleza per avermi introdotto nel calcio professionistico: l’anno scorso abbiamo fatto delle ottime cose, vincendo per la prima volta nella storia la stagione regolare della Categoría Primera B (l’equivalente della nostra Serie B, ndr) e sfiorando la promozione ai playoff, che qui coinvolgono le prime otto squadre e mettono in palio solo due posti. In seguito è arrivata la chiamata del Medellín, una grandissima opportunità e un’esperienza che posso già definire spettacolare. Per i primi sei mesi ho lavorato nel settore giovanile, poi a maggio sono stato promosso a gerente deportivo (direttore sportivo, ndr) e ho iniziato ad occuparmi anche della Prima Squadra».

Quali sono gli obiettivi della società? «Il DIM è uno dei club più importanti della Colombia e ha un progetto estremamente interessante. L’obiettivo primario è vincere la séptima, il settimo campionato, perché il titolo manca dal 2016, mentre come settore giovanile vogliamo diventare una delle migliori cantere del Sudamerica. L’esempio a cui guardare è l’Independiente del Valle, club dell’Ecuador che si è rinnovato e da circa un decennio sta lavorando benissimo, oggi ha la base della Nazionale e delle varie Under e vende giocatori in Premier per 20 milioni di dollari. In passato dal Medellín sono usciti giocatori del calibro di Juan Cuadrado e Jackson Martínez, tanto per fare due nomi noti, perciò nei prossimi anni vogliamo riprendere a fornire talenti al calcio colombiano e internazionale».

Avete qualche ragazzo che promette bene? «Sì, ci sono dei giovani interessanti che hanno già esordito in Prima Squadra, come l’esterno mancino classe 2005 Juan David Arizala e l’attaccante classe 2007 Andres Davila. Però il calcio colombiano è ancora distante da quello italiano e degli altri top campionati europei, ora come ora cerchiamo di vendere soprattutto in America, Brasile e Messico, tornei di livello simile».

In Italia ci ha messo poco ad imporsi Jhon Lucumí, già leader difensivo del Bologna e adesso anche della Nazionale… «Quello di Lucumí è sicuramente un percorso da prendere a modello. Fin dal Sudamericano Under 17 del 2015 si vedeva che poteva diventare un buon centrale ‘europeo’, e i quattro anni trascorsi in Belgio al Genk l’hanno formato al meglio, rendendo naturale e non traumatico il suo passaggio in Serie A. Infatti in ogni partita dimostra di avere grande personalità e sicurezza nei propri mezzi, e non sembra avvertire affatto la pressione: ora è una colonna del Bologna e si è preso il posto da titolare nella Colombia, in futuro penso arriverà a giocare anche la Champions League».

Intanto, insieme ai suoi compagni, è chiamato a non fallire la qualificazione al Mondiale 2026. «Col torneo allargato a 48 squadre il compito è più facile, perché nel girone sudamericano si qualificano le prime sei e la settima va allo spareggio intercontinentale. Tra i tifosi la ferita del 2022 è ancora aperta ma stavolta non credo ci saranno grossi problemi, sulla carta dovrebbero restare fuori Bolivia, Perù e una tra Paraguay e Venezuela».

Invece sulle difficoltà del calcio italiano, da osservatore esterno, che idea ti sei fatto? «Bisogna fare un distinguo tra la Nazionale e il campionato. Riguardo agli azzurri va detto che la vittoria dell’Europeo è stata una bella illusione, in fondo sapevamo che questa generazione avrebbe fatto più fatica delle precedenti, siamo ben lontani dal 2006. Invece sulla Serie A non sono così negativo: seguo pure la Liga spagnola e lì sì che si può parlare di decadimento, mentre in Italia ci sono squadre anche di medio-bassa classifica che propongono un calcio piacevole, cosa che in Spagna non ho più visto dal 2010. A mio avviso la Serie A ha via via superato la Liga grazie a varie proposte intriganti, di recente il Bologna di Motta, il Torino di Juric, la Fiorentina di Italiano o il Sassuolo sotto la gestione De Zerbi, tecnici brillanti che hanno reso più grandi quelle squadre solitamente definite ‘provinciali’. Molto del merito va dato proprio agli allenatori italiani o comunque di formazione italiana, e cito anche Simone Inzaghi per il modo in cui ha saputo farsi conoscere in Europa, mi pare che la categoria sia in costante crescita».

Largo ai giovani, in panchina e non solo: prima o poi vedremo anche Federico Spada al lavoro in Serie A? «Al Medellín sono molto felice, come detto il progetto è serio, ambizioso e stimolante, e ritengo debba avere almeno una base biennale o triennale. Un domani potrei prendere in considerazione eventuali proposte dall’Italia, a patto che si sposino con la mentalità che ho sviluppato in Colombia: fiducia nei giovani, un allenatore con idee moderne e dirigenti ‘aperti’ che abbiano voglia di far crescere il club tramite una programmazione ben precisa. L’Atalanta è un riferimento in tal senso, ma non dimentico il Sassuolo e adesso ci metto anche il Bologna, in cui credo molto perché vedo ampi margini di miglioramento».

Comunque, se mai accadrà, non sarà facile lasciare la Colombia… «Assolutamente no, perché qui mi sono sistemato sotto ogni punto di vista, il Paese è molto bello e posso assicurare che chi ci arriva poi non pensa di andarsene subito. Anche a livello calcistico si sta aprendo molto e ho la ferma convinzione che la Colombia, insieme all’Ecuador, rappresenti il futuro del calcio sudamericano».

Simone Minghinelli

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Foto: dimoficial.com