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Brenno Degli Esposti e l’opportunità sospesa

Brenno Degli Esposti e l'opportunità sospesa

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Racconta Carlo Petrini, nel suo libro-confessione Nel fango del dio pallone, che il 13 gennaio 1980 giocatori e dirigenti si erano accordati per truccare la partita Bologna-Juventus sul risultato di 0-0, puntandoci un sacco di soldi. Per un errore di Zinetti era andata in vantaggio la Juve, seminando lo sconcerto su ambedue le parti in campo. «Niente paura – avrebbe assicurato Bettega – garantisco io». Questo fece sì che Brio pareggiasse i conti con un secco autogol.
In quei giorni noi alla trattoria Trebbi, in Solferino, eravamo ignari della truffa calcistica che si stava perpetrando e soprattutto del garbuglio di danaro e doping che faceva del calcio in quel momento una specie di specchio della società, come banalmente soleva dirsi. Così come solo in anni successivi scoprimmo la nemesi che si sarebbe abbattuta su Petrini e l’esorbitante punizione che il tribunale dell’esistenza gli avrebbe inflitto.
Dunque il giorno 12, che era il sabato prima di Bologna-Juventus del gennaio ’80, da Trebbi pensarono di giocare un sistema. Mauro Baccilieri prese l’incarico di studiarlo e si appartò una mezzoretta. Lui era l’unico juventino tra noi e per BFC-Juve mise la doppia X2, quindi una decina di persone si associò, compreso Mariano, il marito della Delfa, la padrona della trattoria. Alla fine anch’io, nonostante la mia nota idiosincrasia a tutti i giochi. Ognuno pagò la sua quota, come di consueto, poi Brenno fu incaricato di giocare la schedina in agenzia.
Solo vent’anni dopo avrei conosciuto il nostro valoroso Robby Porrelli, che era in curva con suo padre durante quella partita quando aveva quindici anni. Oggi egli ricorda bene la formazione. Ricorda come il talentuoso Colomba fosse entrato svolgendo il solito vezzo scaramantico di tenere le scarpette slacciate e di allacciarsele a centrocampo. Ricorda il gioco indecoroso. Ricorda il gol preso su infortunio di Zinetti al 55′, al che Perani fece entrare al 61′ il centravanti Petrini che non aveva mai giocato, come dire a quelli della Juve: «Adesso dovete prendere gol voialtri». Di Carlo Petrini Porrelli dice che era fisicamente fortissimo, come Arnautovic oggi.
Noi non eravamo più i ragazzi che avevano scorrazzato per il Miramonte. Nel frattempo la Zeitgeist si era mossa, e aveva riempito le strade di Bologna di gente della mia età, intimamente persuasa ad una tale rigenerazione di se stessa, cioè di noi tutti, dal di dentro, così tanta da poterne sovvertirne il mondo. «E la città? La città ti ascolta», recitava un poeta che mi fu caro. Ma io già sapevo che non era vero: la città non ascoltava.
Altri ancora della nostra generazione erano andati in giro ad ammazzare per l’intero Paese, con la sorda determinazione che il male di vivere alimenta. Ancora non si sa se fossero meri aspersori del proprio dolore o agenti mandati dal loro stesso nemico.
Anch’io avevo ‘fatto politica’, come tutti, e avevo provato a combattere i professionisti del mio partito con cui non riuscivo a capirmi. Quei miei valenti compagni dovevano sostenere imperativi di linea: mi sorprendevo a dipanare la loro propensione all’analisi che giorno per giorno e mirabilmente dava coerenza alla realtà, in una sintesi che però il giorno dopo non andava più bene. Ma forse, più probabilmente, non c’era proprio verso di opporsi al corso precostituito degli eventi, secondo quello che qualcuno, più avanti degli altri, con neologismo d’importazione aveva cominciato a chiamare il ‘trend’.
Naturalmente parlo per me, ma con la presunzione pontificale di dispensare a tutti il sacramento della penitenza. Anche per la nostra generazione maturavano i tempi dei primi bilanci. Forse eravamo stati ignavi quando era tempo di Essere. Scriteriati quando si doveva usare ragione, parchi d’amore ogniqualvolta ti aveva sollecitato il cuore. Talora era stata l’incoscienza. Talora il dolo. Avevi realizzato il contrario di quello che ti eri proposto. Da Trebbi al Solferino ognuno smaltiva l’uggia dei suoi contraddittori pensieri.
Io avevo un senso di opportunità perdute.

«Ti chiami Brenno di nome, di cognome o di soprannome?», se la rideva Mauro Baccilieri.

«Raccontaci di quando facevi concorrenza all’Alemagna». E lui raccontava di buon grado. Aveva ancora, per la verità, il dente avvelenato.

«Lo sanno tutti chi era Brenno», provava a recriminare. Poi la buttava in storiacce e ci sghignazzava sopra.

Brenno Degli Esposti, nome inusitato e comunissimo cognome somigliava sputato a Charles Aznavour, e questo gli conferiva un aspetto di tristezza che però tralignava nel comico. Come si fosse messo in attività imprenditoriale, questo nessuno lo sapeva, tranne che ad un certo punto era arrivato a vendere i suoi prodotti in tutt’Italia e anche all’estero. Era al Jolly Joker di via Gramsci che aveva cominciato la sua carriera, quando si contendeva con l’Avvocato in trasferta le bellone di Bologna. Poi era successo qualcosa per cui Brenno si era trovato escluso da tutto quello che praticava normalmente, i suoi laboratori, i suoi negozi, la sua casa. Allora stette rinchiuso per sei mesi di fila in una soffitta con un solo abbaino, finché non lo abbandonarono prima i collaboratori, poi i creditori, infine la moglie. Poi tornò in strada e restituì a chi lo conosceva il Brenno di sempre, che non è detto fosse quello stabilito dai tempi dei tempi in relazione alle sue sembianze.
Ad un certo punto gli avevano dato da gestire la drogheria di sua cognata, e questo serve giusto a dare un saggio della gigantesca mole di aneddoti cui Brenno diede vita e che deliziarono per anni i rappresentanti di commercio, i gestori di locali e i frequentatori di bar. Una volta trasportò nottetempo il magazzino della drogheria presso la cantina del suo amico Brighi, quindi denunciò il ‘furto’ alla questura e fece scrivere all’assicurazione. Conclusa felicemente la prima operazione, Brenno pensò bene di trasportare la merce presso un’altra cantina segreta in via Tovaglie. Anche stavolta riuscì a riscuotere. Ma al terzo atto nessuna assicurazione volle più rinnovargli la polizza. E fu l’ultima volta che lo videro trattare una questione pubblicamente. Fuori del negozio lui protestò in abbigliamento scamiciato e accostamenti poco pertinenti la discriminazione cui era fatto oggetto.

«Bän ch’sa saggna que! Saggna in democrazî o saggna satta al fasisum?». «Cosa siamo diventati? Siamo in democrazia o siamo sotto il fascismo?».

Quello stesso giorno che lo conobbi da Trebbi, era entrato in sala un vero e proprio fantasma, ed era l’Isolina d la Savenèla, quella che aveva evirato con un colpo di rasoio il marito in un impeto di gelosia. Era stato un caso che aveva fatto epoca, prima della guerra, quando lei abitava ancora in Miramonte. Adesso era molto anziana e molto curva e tuttavia autoritaria nel passo precario dietro al bastone. Lo si capiva da come assegnava a sé stessa un certo posto al tavolo e da come starnutiva spazientito un barboncino tignoso che si trascinava al guinzaglio. Brenno si fece serio e mormorò:

«La j a tajè l’usèl…».

Mentre assumeva un’espressione rotonda, nel naso e negli occhi, come certi animali paurosi che abbiano fiutato il carnivoro. Poi Balestrazzi il carrozzaio, che era al tavolo con noi, cambiò registro quasi a volere sdrammatizzare il clima e cominciò a scherzare in modo più leggero.

«Brenno al li cièva tótti», disse.

«C’al siän zòpi, gòbi o sänza dint», rincarò Baccilieri. Che aggiunse anche: «Vèci o żåuvni».

Discorsi che non traduco a bella posta, perché la traduzione può far sortire laida e volgare una propensione spirituale che, espressa nella lingua originaria, così non è. Perché infatti non accreditare a Brenno quella generosità scevra da pregiudizi che non aveva affatto quando si trattava di quattrini? Già quella prima volta che mi sedetti al tavolo con lui, si premurò anticipatamente di precisare che preferiva il pagamento alla romana, benché Mauro Baccilieri, che era a carico mio, non gli avesse chiesto proprio niente. A quel tempo Mauro godeva ancora, si fa per dire, di un buon appetito e ordinava, se c’erano, mezza di polpette e un baby di Four Roses. Io invece cominciavo con una porzione e mezza di tagliatelle.
I Trebbi avevano rilevato nel ’46 il locale da Serenari, quando si chiamava semplicemente Trattoria e prima ancora si era chiamata Osteria dal Rigadén. Erano padre, madre e tre sorelle, la Delfa, la Maria e la Carolina, e siccome erano di Modena il loro ragù era un ibrido tra il modenese e il bolognese: «Sänza sufrétt», cioè fatto solo con «la zivålla, senza sarrel e pistinèga». Giustamente però sapevano soffriggere la cipolla, cosa fondamentale perché se questa viene leggermente bruciacchiata prende un sapore di sudaticcio. Poi lo facevano col concentrato di pomodoro e per questo aveva quel colore marroncino che è classico del ragù e degli intingoli bolognesi ed emiliani in genere, perché il rosso è pomodoro fresco e non si usava, e neanche i pelati, che fanno troppa acqua e danno un sapore che non è quello nostro. Baccilieri enumerava gli altri ingredienti classici che erano la ‘cartella’, che è una parte del manzo, le interiora di pollo, fegato e fegatini e poi le ‘ovoline’, cioè quelle uova che si estraevano ancora senza guscio dal ventre della gallina, ma che adesso non si trovano più. Il ragù del resto era come il ripieno dei tortellini, che aveva una base, ma poi ognuno ci metteva quel che aveva. Per questo si abbondava, per esempio, nel maiale che costava meno. Il ragù peggiore è quello di lombo, perché poco saporito però, se fatto coi canoni, si può mangiare.
La Maria e la Carolina stavano in cucina a fare i sughi e i secondi, mentre la Delfa tirava le tagliatelle col mattarello e serviva ai tavoli portandosi dietro, nella sua incipiente maturità, un culo di quelli di una volta. L’Isolina d la Savenèla aveva ordinato a sua volta le tagliatelle al ragù e ne offriva qualche pezzetto al suo barboncino.
Passarono il sabato e la domenica, che ancora non era in uso di chiamare universalmente ‘weekend’, e le solite discussioni si susseguivano. I bolognesi deliravano Savoldi, il centravanti che volava. Baccilieri, juventino, sottilizzava sul genio di Bettega che prendeva un sacco di pali perché lui «tirava sempre angolato». Qualcuno si era accorto che Perani aveva inaugurato un gioco di movimento, inserendo due laterali che correvano e riscoprendo il ruolo del centromediano metodista.
Il lunedì arrivarono le vincite e le relative quote e il sistema di Baccilieri aveva vinto un centinaio di milioni di lire di allora. Ci fu un gran vociare concitato. Mariano offrì a tutti lo champagne, che poi era vino spumante dei colli bolognesi ma, pensandoci oggi, non me lo ricordo troppo entusiasta, come se avesse un presentimento. Il fatto è che verso l’ora di cena arrivò l’ultimo socio, Brenno, che aveva portato la schedina all’agenzia. E Brenno si era dimenticato di giocarla.
Ricordo confusamente la scena delle manifestazioni di delusione e le connesse rimostranze.
Mariano, per parte sua, fu molto composto e mentre mi serviva la porzione e mezza di tagliatelle commentava con certa rassegnazione paziente:

«Che somaro…».

Brenno, invece. si proiettò al di sopra di tutti quanti e profferì di getto una risposta che lo eternò nel ricordo di chi lo aveva conosciuto, perché solo Brenno Degli Esposti poteva concepire l’idea balzana di sfidare il procedere dritto del tempo.

«Bän c’sa jél? A la żughèn st’ètra vôlta!». «Che sarà mai? La giochiamo la prossima volta!».

Bombo

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