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La saga di Żvanéṅ Ciavadåor – Żvanéṅ Ciavadåor e il suo mentore Guståṅ

La saga di Żvanéṅ Ciavadåor - Żvanéṅ Ciavadåor e il suo mentore Guståṅ

Ph. zerocinquantuno.it

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Si apre con quest’epico prologo la saga di Żvanéṅ Ciavadåor, nomignolo d’inequivoco senso, che accesa nei pantani primaverili e nei solstizi estivi della Bassa, celebrata nei negozi delle parrucchiere di tutte le periferie e nei salotti delle bellezze ascese alla ricchezza, approdò perfino ai fasti di Cinecittà.
Era nelle giornate d’inverno, al caldo buono della stalla, che s’instituiva la scuola dello ‘stare al mondo’, mentre la terra gelata proteggeva le semenze autunnali e i fienili traboccavano di foraggio stipato fino alle travi di quercia, cui le ragnatele centenarie, come nere vele di navi pietrificate, custodivano memorie di cui nessuno sapeva. Fuori, sotto il lattescente cielo, i tralci ben legati con vimini teneri dei tesi vitigni correvan sospesi sui filari di ontani, che gocciolando dai rami monchi di potatura autunnale si allineavano lungo le grigie colmate e le scoline affondate nella nebbia delle centuriazioni.
Nel camminamento tra due file di poste si metteva la panca di legno vetusta di nodi spaccati che non si sapeva quando fosse stata fatta, e attorno sgabelli più volte riparati e puntellati. Solo i buchi dei ragni nascosti nella tessitura della loro trappola sembravano più antichi e le nicchie nelle pareti zeppe di polveri, di calcinacci e di attrezzi inservibili riposti e mai ripresi. E più ancora le tavole abrase dalle incornate che delimitavano le poste e il colore delle pareti imbiancate a calce sovrapposta nei decenni a schizzi seccati di sterco, materia più duttile a volte e a volte più tenace del cemento. Intanto le bestie sdraiate come divinità di un tempo immobile come l’Eterno, perennemente ruminando depositavano placide le loro boazze, tra vapori di sbuffi e pigri muggiti, forse nostalgia di praterie mai calpestate.
Schivando gli schizzi delle ricorrenti torrenziali pisciate, impossibile impresa giacché, come uno sbadiglio, la pisciata si diffondeva in corale cascata, Zvanéṅ, Tony Pazàtt, Mélli Bån e Gustån, il più grande, passavano i pomeriggi a giocare a scala, massino e gufàtt. Gufàtt quando giocavano di soldi, che era un gioco col bluff e le carte da briscola. È andando a busso e dichiarando scala che congetturavano sulle cose, senza che ci fosse un’apparente ordine d’importanza nei discorsi. Si diceva fosse in corso una guerra in un posto chiamato Corea, che concomitante con l’idea del comunîṡum in Róssia divideva i campi di credenza in tenaci ostilità, ma non tanto quante ne potesse dividere al żûg dal fôtball. Quel Gipo Viani allenatore e quel Dall’Ara presidente, con la squadra che mai voleva agganciare il gruppo di testa, e quelle maldicenze sui loro poker e le loro donne, che stuzzicanti innescavano la presenza pervasiva della sempiterna passera come l’onnipresente ronzare delle mosche.
Żvanéṅ, Giovannino, il più giovane, che ancora non aveva il glorioso cognomen, era goloso di sapere. Tony ‘il Pazzo’, Emilio ‘il Valido’ e Gustavo, gli altri tre, lo canzonavano. Io ero quasi un bambino e non contavo niente. Da poco avevo vissuto le ultime sere invernali in cui le donne usavano filare in stalla alla luce della lanterna a petrolio, col fuso e l’arcolaio, raccontando vicende della loro infanzia, storie di amori, truci tradimenti e desolati abbandoni, onde poi recitare il rosario al muto ruminare notturno. Fuori, il freddo era così intenso che cementava di ghiaccio l’esterno dei portoni e avrebbe potuto ghermirti per ucciderti.
Un pomeriggio che venne il temporale e la pioggia rotolando giù dai coppi traboccava scrosciando dalle grondaie, Żvanéṅ confessò ai compagni un suo cruccio dispettoso, una spiacevole disavventura che gli era capitata con la Serafina, la moretta dagli occhi chiari che abitava di là dal ponte della Quaderna, quando ci si era trovato a scherzare sulla catasta dei balini, sotto la tettoia del pagliaio. Avevano riso e saltato un bel po’, poi lui le aveva mandato all’aria la stanèlla quasi senza volere e con una manata le aveva tirato giù le mutande forbendole all’elastico. Non che lei avesse avuto caso mai il tempo di protestare, perché subito aveva dovuto darsi da fare col fazzoletto e lui che l’aiutava col suo per pulirla dappertutto.

«Comm a l’ò véssta a i sån vgnô såura», si lamentava.

«Pènsa té, dåpp t la cazarésst vî». «Pensa te, dopo la butteresti via», filosofeggiava tristemente.

Tony Pazàtt e Mélli Bån sogghignarono pensando a chiudere la partita. Ma il più vecchio Guståṅ prese la questione molto seriamente e gli disse:

«Te hai bisogno che qualcuno t’insegni».

Da quel pomeriggio, Guståṅ non cessò per settimane e senza saltare un giorno di istruire Żvanéṅ, né di dialogare con gli altri sui massimi sistemi del femminile universo.

Dominava la scena, come lo Spirito sulle acque ancestrali, la disposizione che Guståṅ definiva, con rigore scientifico, la tgnûda mentèl, la tenuta mentale. Prima di tutto bisognava fichèrs int al zócc, convincersi intimamente, dell’imperativo a tgnîr bòta, risultanza cui era deputata la conzentraziån, mai distrarsi. Preliminarmente, però, a i vléva la barlòca, serviva la parlantina. Bisognava insomma guadagnèr fidòzzia, conquistarsi la fiducia, da òmen ó cinno ch’a si pòl cuntêr in vàtta, da persona su cui si può contare per quelle cose, par môd c as pòsa fiubèr, al tô par côsa, in modo da raggiungere il tuo scopo, arivèr al conquîbus.
Tra una smazzata e l’altra, le scuole di pensiero divergevano. Tony propendeva per il metodo di andèr żå pèra, cioè a dire o la va o la spacca senza perdere del tempo. Egli era un pratico. Mélli, più attento alle particolarità della circostanza, sia nella fase dei corteggiamenti, filaréṅ, che quando alla fine andèva pr äl ciavadûr, oggi lo definirei un possibilista. Ma il vecchio Guståṅ, drastico, conseguente e ossessivo, sêri cme un tudàssc, non derogava dai suoi principi. A distanza di anni, mi è sovvenuto di classificarlo secondo i termini che via via le metafore della politica avevano reso di uso comune: egli era un fondamentalista.

Prossima puntata: I cinque pilastri della saggezza di Guståṅ.

Bombo

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