Zerocinquantuno

L’antifrasi del vecchio Campana

L'antifrasi del vecchio Campana

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Ho abbozzato questo racconto tantissimi anni fa con intenti di così alto profilo da volerlo intitolare Il barrocciaio e il paradiso. Mai avrei immaginato che una frase sibillina come quella pronunciata dal vecchio Campana in punto di morte, avrebbe atteso di svelare la sua epifania, cioè sarebbe caduta a fagiolo, come prosaica obiezione alle mirabolanti promesse sulle magnifiche sorti e progressive della costruenda tranvia bolognese.
Siccome spesso con diletto e buon auspicio mi succede di ascoltare profeti e millenaristi di quando i cantieri avranno lasciato il campo a silenziosi e filanti veicoli, acciocché frotte di persone da ogni dove arriveranno felici nel centro di Bologna, i ciclisti avranno imparato a non ingavagnarsi nei solchi di ferro e le automobili staranno pacificamente in fila dietro al binario unico e la strettoia di San Felice. Blasfemo sarà l’accostamento, purtuttavia non mi sottraggo al compito, che qualche spiritello mi ha assegnato, di ripensare un remoto episodio della mia infanzia.
Solenne, certo, fu l’evento, e laborioso ricostruirne il significato.
Viveva ancora dalle mie parti, quand’ero molto piccolo, un Carrettiere romagnolo che faceva di cognome Campana ma tutti lo chiamavano al Vèc’ Campèn, il vecchio Campana. E il vecchio Campana era parente di un altro romagnolo matto che, si diceva, fosse vissuto in un paese chiamato Marradi. La sua cifra caratteriale era di essere scorbutico, ma nel corso degli anni successivi alla scomparsa, spesso ripensandoci lo avevo classificato come scettico radicale, uno dei tanti filosofi della Bassa. Tra i primi aveva dato atto, pur senza troppi entusiasmi, dei trionfi del progresso ed aveva certificato la competenza di Calisto Bandoni come primo meccanico della pianura verso est. Intanto, nell’anteguerra si era rifiutato di prendere la tessera del fascio e questo gli era costato le sue brave bastonature. Poi, durante l’occupazione, non andava d’accordo neanche coi partigiani. Anzi, quando Tony Pazàtt che aveva avanzato la pensata di aspettare qualche soldato tedesco in licenza mentre pedalava verso la stazione di Bologna per appostarsi nel fosso e sparargli, figurandosi l’intera contrada in fiamme sotto la rappresaglia dei flammenwerfer, Campèn lo aveva ammonito: «Se fai questa cosa qui, mé at dnûnzi!», io ti denuncio. E forse aveva rischiato la pelle.
Verso l’autorità religiosa, rappresentata da don Bertrando Lambertini, aveva poi sempre mostrato distacco. Del resto la sua qualità di solerte bestemmiatore, contra Deum maledicere, come diceva don Bertrando, si manifestava in contesti di ira e dolore, una protesta cosmica, come concepii più tardi, dunque sine animo Deum offendendi prolata. Non si era mai visto in chiesa e solo ai funerali girondolava attorno al defunto, portando la pena profonda di chi sembra lamentare: anche questo se n’è andato. E un giorno di primavera, che io facevo da poco le elementari, toccò anche a lui, al vecchio Campana.
Successe che il suo barroccio era stato preso sotto da un camion e il vecchio Campana lo avevano tirato fuori con le costole tutte rotte e, come si disse, bell’e che andato. Non che ci fosse l’ambulanza e così lo avevano trasportato fin sotto l’androne dietro l’angolo dell’osteria, dove abitavano i casanolo, per aspettare che morisse del tutto. Intanto nei dintorni si eran passati parola, mezzo paese era accorso per assistere ed anch’io fui condotto da mia zia attraversando la San Vitale che era la linea del pericolo per noi bambini ed anche per i grandi, giacché il traffico degli autotreni oramai non faceva differenze se spiaccicare gatti o travolgere cristiani; e neanche i primi automobilisti, in macchine nere e tozze o in rosse più filanti, sapevano bene quello che stavan facendo. Arrivò invece don Bertrando Lambertini attraverso i campi per l’argine della Riola con dietro i chierichetti, l’olio santo e l’incensiere. Io mi ritrovai lì con i vicini e i miei amici. C’era Marietto Calzerotti, quello che aveva sempre un pallone tra i piedi e Caburazzi che faceva l’asino. Si fece vedere anche il detto William, uno grande della guerra in montagna di cui si vociferava di male e di bene e che sapeva sempre tutte le cose. E c’era anche Mélli Bàn, che vuol dire Emilio il migliore, ed era anche lui più grande di me. E c’era anche la Teresina, quella dalle trecce rosse e le lentiggini che era la bambina che mi piaceva.
Don Bertrando cominciò a predicare elevando le mani sopra Campèn che aveva gli occhi stralunati ed ansimava e non poteva farci niente se quell’uomo continuava a parlare, ad aspergere di fumo l’androne e segnargli l’olio santo sulla fronte. Don Bertrando cominciò a dire che il Signore era misericordioso, ed anche se il vecchio Campana non prendeva mai i sacramenti ed anzi spesso e volentieri bestemmiava il Signore, ebbene Egli lo perdonava e lo l’avrebbe assunto in Cielo dove avrebbe smesso di soffrire, godendo in eterno delle gioie del Paradiso accanto a tutti i santi e a sua madre la Madonna. Angeli, Arcangeli, Cherubini e Serafini. E quando don Bertrando cominciò ad intonare «In paradisum deducan te angeli», al tuo arrivo ti accolgano i martiri, il vecchio Campana pronunciò una frase e poi spirò.
Io ero un po’ più distante di altri e poi ero piccolo e non riuscii a capire cosa avesse detto al Véc’ Campèn. Mi ci vollero degli anni, ogni qual volta mi tornava in mente e per caso avevo occasione di riparlarne, per cercare testimonianze sollecitando il ricordo di chi mi stava d’attorno. Con Caburazzi era inutile parlarne giacché appunto faceva l’asino di mestiere. Ne parlai anni dopo con William il combattente che per certe storie era scappato via nei paesi dell’est Europa, e poi se n’era scappato di ritorno, ma ci cavai poco e niente. Mi disse solo che le parole di Campèn erano pertinenti la situazione. Capitò una volta che andai a trovare Marietto Calzerotti che giocava nei Tranvieri assieme a Gino Cappello e Gino Pivatelli, che erano a fine carriera. Si stavano allenando alla Bolognina e gli mancava qualcuno e così Marietto mise me in porta. Ma Pivatelli mi tirò un legno così forte, con quel suo piede da bambina, che se mi prendeva mi ammazzava. Allora pensai bene di uscire dal campo. Poi nell’intervallo, intanto che chiacchieravamo, mi venne in mente di chiedere a Mario di quella volta di Campèn. Lui stoppò il fótbal, fece due palleggi in giravolta e se lo fermò sotto i tacchetti. Poi cominciò a pensare. Si ricordava benissimo tutta la scena ma anche lui non aveva capito bene cosa Campèn avesse detto. Naturalmente l’avevo chiesto anche alla Teresina, una volta che ci eravamo infrattati nel pagliaio. Ma lei non se lo ricordava. E poi aveva altre preoccupazioni per la testa…
Passano davvero molti anni e finalmente, siamo alla fine dello yuppismo e quasi alla soglia del tempo del digitale, una mattina che sono in macchina lungo via delle Lame, lì vicino dove trent’anni dopo sarebbe esondato il canale di Reno, vedo animazione entro le vetrine di un negozio e qualcuno che mi è noto. Inchiodo di brutto con la colonna dietro che mi strombazza, accosto in seconda fila e corro dentro. Dentro c’è niente meno che Mélli Bàn, che non vedevo da anni ed anni. Ha allestito un magazzino di prosciutti, tutti appesi per aria lungo binari da macellaio, sta trattando con un mare di clienti ma mi riconosce. Deposita sul bancone un Langhirano come fosse un bambino e cominciamo a darci di pacche sulle spalle. Quanti anni sono passati e quante cose abbiamo fatte! Noi più piccoli seguivamo Mélli Bàn nelle sue scorribande negli occulti territori delle spose, come a imparare da lui. I clienti aspettano ma chi se ne importa. Alla fine gli ricordo del vecchio Campana e Mélli Bàn aveva ascoltato e si ricorda tutto. All’invocazione di don Lambertini Il vecchio Campana avrebbe pronunciato:

«Starän da vadder tótti ‘ste cucâgn!».

Ora, il nostro sindaco è un grande intellettuale, lo si può arguire dalla barba alla Van Dyck, e di sicuro non conosce, così come un altro predecessore, il dialetto del suo popolo. Però il Palazzo è pieno di consiglieri, e la frase di facile traduzione.
Quanto a me, so che l’androne dove spirò Campèn e sulle cui pareti si deposero come orme gli sguardi dei miei compagni di allora, è già stato smaltato e ristrutturato innumerevoli volte. Adesso è lastricato di un simil marmo piuttosto lussuoso che si chiama Kelkoo e forse ci faranno un B&B.

Bombo

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