Il calcio è vita, non soltanto soldi. Basta invidia e ipocrisia, ridateci il pallone

Il calcio è vita, non soltanto soldi. Basta invidia e ipocrisia, ridateci il pallone

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«Ogni volta che un bambino prende a calci qualcosa per la strada, lì ricomincia la storia del calcio», scriveva il grande Jorge Luis Borges. Una frase meravigliosa, intrisa di sogni e magia ma anche di realtà, di quotidianità, a testimoniare quanto il gioco del pallone faccia parte della cultura e dell’esistenza di tantissimi popoli sparsi in giro per il globo. Eppure, se rilette oggi, specialmente in Italia, le parole dello scrittore e filosofo argentino non fanno altro che aumentare quel forte senso di vuoto, triste e amaro, che ci accompagna ormai da diverse settimane.
Bambini o adulti, dilettanti o professionisti, il gesto pedatorio all’aria aperta non è consentito, anzi, viene visto come il Male Assoluto, come qualcosa da confinare, ingabbiare e se possibile schiacciare. Perché si sa, spesso le cose belle, maestose, influenti e per loro stessa natura superiori arrivano a far paura, a dare fastidio. Come una donna splendida e affascinante, vessata ed emarginata dalle amiche brutte e invidiose. Sta accadendo proprio questo, nel Belpaese, ma la cosa più triste è che il fuoco viene esploso non soltanto dai rivali storici del calcio, che non aspettavano altro per liberare tutto il loro complesso d’inferiorità, ma anche da una marea di ipocriti che fino all’altro ieri si definivano tifosi.
Cominciamo dai ‘nemici’, tra i quali si nascondono ‒ neanche troppo ‒ alcune delle più importanti cariche dello Stato e non solo. Una premessa: nessuno sta sottovalutando l’attuale emergenza sanitaria, guai a farlo, ma la sensazione è che dietro al paravento dei protocolli medici, dei controlli e della sicurezza si nasconda una missione punitiva nei confronti dello sport più popolare al mondo. Inutile girarci attorno, il calcio sta parecchio antipatico ai paladini dell’onestà e dell’uguaglianza, a cominciare dal ministro dello sport Vincenzo Spadafora, il cui atteggiamento somiglia sempre più a quello di Ponzio Pilato (4 maggio forse, 18 maggio chissà, 25 dicembre vedremo…), e dal presidente del CONI Giovanni Malagò, che non vedrebbe l’ora di equiparare il calcio alla palla tamburello, con tutto il rispetto. Adesso che il Governo ha ridato la possibilità alla sua cara amica Federica Pellegrini di riprendere ad allenarsi in piscina, speriamo si tranquillizzi almeno un po’.
Già, vogliamo parlare della distinzione tra sport individuali e sport di squadra? O meglio, vogliamo parlare del fatto che, secondo le brillanti menti che hanno partorito il Dpcm presentato ieri sera dal premier Giuseppe Conte, dal 4 maggio un calciatore di Serie A potrebbe paradossalmente allenarsi nel parco sotto casa ma non nel centro tecnico del proprio club, dove di base ci sono almeno tre-quattro campi a disposizione? Che senso ha fare figli e figliastri, quando invece ci sarebbe bisogno di compattezza e di una linea comune? Ah già, il protocollo… In effetti, un ritiro blindato e monitorato nei minimi particolari, peraltro attraverso procedure molto costose (e quindi, come detto, antipatiche, perché altri non possono permettersele), mettendo la testa fuori con mille precauzioni solo per le trasferte, non va bene, invece andare in bicicletta dalla nonna o dalla zia col rischio magari di contagiarla e spedirla al Creatore sì.
È questione di soldi? Sicuramente, inutile negarlo, ma ogni tanto sarebbe bene ricordare a Spadafora & Co. che il calcio è la terza industria del Paese, quella che produce circa il 7% del PIL nazionale e dà lavoro a quasi 300 mila persone. Tra di esse ci sono Cristiano Ronaldo, Zlatan Ibrahimovic, Romelu Lukaku e Ciro Immobile, ma anche magazzinieri, addetti stampa, fisioterapisti, segretari, steward e chi più ne ha più ne metta. Se anche solo una parte del ‘carrozzone’ dovesse saltare in aria, qualcuno ne dovrà rispondere, possibilmente in maniera convincente.
A casa mia, un Governo con la G maiuscola è quello che cerca di aiutare gli ‘ultimi’ ad avvicinarsi ai ‘primi’, non che prova a mettere i bastoni tra le ruote ai ‘primi’ per farli scendere quasi al livello degli ‘ultimi’ (le virgolette sono d’obbligo perché, polemiche a parte, ogni disciplina ha la sua enorme dignità, ma fingere che il calcio non sia Lo Sport italiano per eccellenza è da marziani). Dunque si dovrebbe e si sarebbe dovuta incentivare una graduale ripartenza, in sicurezza e con tutti gli aiuti economici del caso (specialmente per il mondo dilettantistico, che rischia un crollo epocale), e non spingere le varie Federazioni ad abbassare subito la serranda, tentazione in cui sono caduti uno dopo l’altro rugby, basket e volley, che chissà se e come potranno rialzarla. Il pallone invece non molla, piaccia o meno a chi probabilmente non ci ha neppure mai giocato.
E qui arriviamo alla seconda categoria di ‘nemici’, i più insospettabili: una parte dei tifosi e degli appassionati (o presunti tali), quelli che fino a due mesi fa vivevano di calcio e oggi ne vorrebbe la soppressione immediata. Se questa brutta situazione ci ha fatto definitivamente capire che i veri eroi lavorano nelle corsie d’ospedale e non su un rettangolo verde, è sicuramente un bene, ma non si può neanche ridurre ogni cosa all’equazione calciatore = str***o insensibile, sputando su quell’onirico mix di fede, amore, passione e idolatria che ci pervade fin da quando abbiamo dato una pedata ad un oggetto sferico o messo piede in uno stadio per la prima volta.
Siamo impauriti e disorientati dinnanzi ad uno scenario nuovo, complesso e dagli sviluppi in larga parte ancora imprevedibili, quindi la vox populi che chiede di ridurre maggiormente le distanze sociali ed economiche e di diminuire i privilegi è rispettabile e comprensibile, purché non sfoci nell’ipocrisia o peggio nella demagogia. Una cosa, in particolare, mi dà fastidio: il fatto che i morti provocati dal COVID-19 vengano utilizzati dai ‘no-football’ per rafforzare la propria posizione e dare addosso ai vari Gravina, Dal Pino e Lotito (pur coi loro difetti), più che per reale empatia nei confronti delle famiglie dei defunti. Certo, non capita tutti gli anni di assistere a 26 mila decessi in così poco tempo, lo shock emotivo non ha precedenti dal Secondo dopoguerra in poi (specie in alcune zone, vedi Bergamo, Brescia, Cremona, Lodi e Piacenza) e non dubito che il cuore di tanti italiani sia stato davvero toccato, ma cosa si pensa di ottenere e di risolvere bloccando ad oltranza il calcio?
Senza dubbio risulterò impopolare ma so perfettamente di cosa sto parlando, perché ho imparato attorno ai dieci anni che la morte esiste, fa parte della vita, e anche che purtroppo o per fortuna la vita va avanti. Nutro un profondo rispetto per tutti coloro che di recente hanno dovuto fare i conti con una grave perdita, peraltro senza nemmeno un ultimo saluto, e che adesso si sentono risucchiati in una sorta di buco nero. Ebbene, le possibilità sono due: scivolare sempre di più dentro quel buio o risalire verso la luce. Sarebbe bello fermare tutto e tornare indietro, ma non si può. Io ho scelto di reagire, e uno degli appigli fondamentali a cui mi sono aggrappato è stato il calcio, grazie alle sue innumerevoli sfaccettature: attività fisica, aggregazione, formazione, socialità, amicizia, sacrificio, tifo e così via. Alcune di esse, a causa di questo maledetto virus, dovremo tenerle in standby o approcciarle in modo diverso dal solito ancora per un po’, ma un passo alla volta le recupereremo a pieno.
Nel frattempo bisogna però rialzare la testa, salvare ciò che ancora può essere salvato e ricominciare, senza mai dimenticare le persone che non sono più tra noi, anzi, omaggiandole in tutti i modi possibili e vivendo a pieno ogni singola azione, gol, esultanza ed emozione anche per loro. Io lo faccio ogni volta che prendo a calci un pallone in Terza Categoria, magari segno e alzo gli occhi al cielo verso mia madre. In quel momento, nonostante non sia più un bambino, ricomincia la storia del calcio. E, soprattutto, ricomincia la mia vita.

Simone Minghinelli

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