Mariolina Bernardini: “Vi racconto mio padre Fulvio e il suo legame speciale con Bologna. Disse no a Boniperti, per Dall’Ara lo vidi piangere”

Mariolina Bernardini: “Vi racconto mio padre Fulvio e il suo legame speciale con Bologna. Disse no a Boniperti, per Dall’Ara lo vidi piangere”

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Fulvio Bernardini, uomo e allenatore che sotto le Due Torri non ha bisogno di molte presentazioni, non ha soltanto scritto pagine memorabili e forse irripetibili nella storia del Bologna, è letteralmente stato la storia del Bologna, guidando verso lo scudetto uno straordinario gruppo di ragazzi che oggi abbraccia lassù in Paradiso insieme al presidentissimo Renato Dall’Ara, dopo aver prodotto con loro un calcio degno di tale contesto. Dietro al tricolore rossoblù del 1964, preceduto da una Mitropa Cup e dai trionfi in campionato e Coppa Italia sulle panchine di Fiorentina e Lazio, c’è infatti la sapiente e geniale mano di un personaggio unico, dentro e fuori dal campo. Quest’oggi abbiamo avuto la possibilità di conoscerlo meglio grazie ad un’emozionante chiacchierata con Mariolina, una delle sue due figlie, che di recente è stata ospite del BFC a Casteldebole: ecco cosa ci ha raccontato…

Mariolina, che rapporto c’era tra suo padre e Bologna? «Bisogna distinguere tra il calcio e la vita privata. Dal campo ha ricevuto enormi soddisfazioni, nonostante qualche piccola frizione con Dall’Ara. Per quanto riguarda la vita al di fuori dal rettangolo verde, sotto le Due Torri si trovava benissimo. Aveva bisogno di instaurare rapporti amichevoli, com’era nella sua natura, così si rivolgeva a tutti dando del tu e trattando sempre col massimo rispetto ogni persona con cui parlava: in tal senso, Bologna gli calzava a pennello, tanto che i tifosi lo chiamavano ‘Dottore’. Quando nel 1965 andò via provò un dolore immenso, considerando anche che poco tempo prima aveva acquistato una nuova abitazione a Casalecchio, dopo che avevamo vissuto a lungo nei pressi della Stazione Centrale in una casa più vecchia messa a nostra disposizione dal presidente».

Come considerava gli scudetti conquistati alla guida di Fiorentina prima e dei rossoblù poi? «Ne andava estremamente orgoglioso. C’è da dire che quello di Firenze fu più ‘casuale’, mentre quello di Bologna era stato pensato e costruito nelle stagioni precedenti, e arrivò anche grazie ad alcune soluzioni tattiche innovative per l’epoca. Eravamo negli anni Sessanta e possiamo dire che fu lo scudetto di tutta Italia, nel senso che i rossoblù godevano della simpatia delle altre tifoserie contro il solito terzetto Milan-Inter-Juventus, che rappresentava la supremazia del nord sul resto del Paese. Al giorno d’oggi sarebbe impensabile una cosa del genere, realtà ‘provinciali’ che sconfiggono i colossi della Serie A: i due scudetti di mio padre valgono più di tutti quelli che avrebbe potuto vincere allenando la Juventus».

Roma, 7 giugno 1964: lei aveva 17 anni, che ricordi conserva di quel giorno? «Di quella giornata ricordo innanzitutto il caldo torrido: mio padre aveva portato la squadra in ritiro a Fregene, mentre l’Inter si era allenata in montagna e questa scelta favorì il Bologna, perché i giocatori si erano abituati alla calura. Lungo la strada verso lo stadio Olimpico c’erano tantissimi tifosi rossoblù e i loro volti erano abbastanza tirati, perché sentivano molto la tensione generata da un match storico. Aggiungo che tanti romani parteggiavano per il Bologna proprio per via della presenza di Fulvio. Rammento anche una scenetta piuttosto divertente che vidi, con protagonista la famiglia Moratti: pensando che avrebbero avuto vita facile, si stavano già confrontando circa il luogo dei festeggiamenti e optarono per l’Hotel Hilton. Poi però le cose andarono diversamente, per ‘colpa’ di mio padre che cambiò i loro piani…».

Suo padre aveva un preferito dentro quel meraviglioso gruppo? «Mio padre trattava i calciatori come dei figli, ricordo che li chiamava per nome: li adorava tutti, dal primo all’ultimo. Diciamo che con Janich esisteva un rapporto speciale, per lui era un po’ come il figlio maschio che non aveva mai avuto, tanto che fu lui a volerlo fortemente nel Bologna dopo averlo allenato alla Lazio. Una volta Franco mi chiamò e mi disse che portava sempre con sé una foto di Fulvio: lo chiamava “papà”, mentre io ero la sua “sorellina”. Anche con Nielsen aveva un rapporto splendido, tanto che nel 1963 andammo a trovarlo fino in Danimarca con la macchina».

Pare invece che il rapporto tra Bernardini e Dall’Ara non fosse idilliaco… «Spesso sento dire che i due non si amavano, ma non era proprio così. Diciamo che non erano migliori amici, ad esempio Dall’Ara non perdonava a mio padre il fatto di non andare mai a giocare a carte con lui come facevano altri allenatori, ma in fondo si rispettavano molto. A volte ci invitava nella sua villa sui colli, ma Fulvio non amava parlare di calcio col presidente perché ci teneva a rimanere indipendente. Al funerale di Dall’Ara, nonostante mio padre fosse un uomo tutto d’un pezzo, lo vidi piangere: sotto sotto, secondo me, si volevano molto bene».

Che uomo era Fulvio Bernardini? «Un uomo genuino. Nel privato era come lo si vedeva in pubblico: trasparente, integerrimo e fisso nei suoi ideali, che ci ha tramandato. Accusò pesantemente a livello personale la squalifica per la storia del doping, poi revocata, perché era un romano d’altri tempi, molto sanguigno e orgoglioso ma estremamente buono. Pensate che ai tempi gli chiesero pure di allenare la Juventus, ma durante una telefonata con Boniperti gli disse: “Eddai Giampiero, che ce vengo a fa’, ‘o sanno tutti che la squadra ‘a fai te”. Questo era mio padre».

Di recente è stata in visita al club: che sensazioni ha provato? «L’a.d. Fenucci mi ha invitata a Casteldebole in occasione della presentazione del libro di Marco Tarozzi su Dall’Ara. Così la scorsa settimana io e mia figlia siamo state ospiti a pranzo presso il centro tecnico, accolte proprio da Fenucci, Di Vaio e tante altre persone gentilissime. In seguito ci hanno portate allo stadio, dove ho visto un sacco di foto del passato che mi hanno emozionato tanto, così come la Terrazza Bernardini. Ogni volta che torno a Bologna provo una grande gioia, perché c’è sempre un’atmosfera fantastica sia dentro il club che in città. Mio padre, al pari di tutta la nostra famiglia, ha lasciato davvero il cuore lì da voi. E visti gli innumerevoli attestati di affetto e stima, credo che anche lui sia rimasto nel cuore dei bolognesi».

Lorenzo Bignami

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Foto: bolognafc.it