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Paponi: “A Bologna non giocavo soprattutto per colpa mia, ora vorrei riportare in B il Piacenza. Lo ‘scorpione’ a Parma e la stagione a Montreal, ricordi indelebili”

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Ci sono giocatori capaci di restare nella memoria collettiva pur senza essere dei fuoriclasse o aver infranto record: uno di questi è senza dubbio Daniele Paponi, attaccante classe 1988 nativo di Ancona. Sarà per il cognome simpatico, sarà per la follia e la spettacolarità di alcuni suoi gesti tecnici, o forse perché nel celebre videogame Football Manager, ai tempi del Parma, era considerato un potenziale fenomeno, fatto sta che di lui si ricordano in tanti, a Bologna e non solo. Notevole il suo impatto con la Serie A, decisamente meno la continuità di rendimento negli anni successivi, inframezzati anche da una parentesi in MLS nei Montreal Impact di Joey Saputo. E così ‘Pappo’, nel 2014, si è rimesso in gioco con grande umiltà in Serie C e ha saputo andare oltre la semplicistica e fastidiosa etichetta di ‘promessa non mantenuta’, ritrovando serenità, gol e consapevolezza nei propri mezzi. Con qualche rimpianto, certo, ma a testa alta. La stessa testa con cui, in un freddo pomeriggio di metà febbraio 2011, aveva scaldato il cuore dei tifosi rossoblù presenti al Dall’Ara, compreso quello del sottoscritto. Oggi Daniele è a Piacenza, chiuso in casa come tutti noi, e sogna di tornare presto in campo con la maglia biancorossa: per riprendere a segnare, per regalare un piccolo sorriso ad una città ferita che sta provando faticosamente a rialzarsi.

19 febbraio 2011, all’ultimo secondo ti getti su un cross di Cherubin e la incorni all’incrocio, mandando k.o. il Palermo: anche la tua carriera sembra poter spiccare il volo, poi cosa succede? «Quell’anno andò anche abbastanza bene, poi arrivarono altri allenatori (Bisoli prese il posto di Malesani, quindi venne sostituito da Pioli, ndr) che avevano vedute diverse e non trovai più spazio. Ammetto però di averci messo anche del mio, con atteggiamenti fuori dal campo non proprio idonei. Ho poco da recriminare, anche perché la squadra giocava bene e ottenne dei risultati importanti».

Dunque, ripensando a quel periodo, hai di che rimproverarti… «Sì, perché appunto la gestione extra campo non era delle migliori, mi divertivo abbastanza e non ero professionista al 100%. Tutto ciò ha influito sia sulle scelte degli allenatori che sul proseguimento della mia carriera».

Nel complesso il tuo ricordo di Bologna e dell’ambiente rossoblù è comunque positivo? «Assolutamente sì, sono stato da dio sia in squadra che in città, ho conosciuto persone splendide e ho avuto compagni straordinari. Rimangono i rimpianti, certo, ma ormai il passato non si può più cambiare».

Da giovanissimo promettevi molto bene, tanto che ti cercò persino il Liverpool… «Sì, diciamo che ai tempi di Parma ero una cosiddetta ‘promessa’. La notizia relativa ad un interessamento del Liverpool è stata un po’ ingigantita ma è vera, sondarono il terreno. L’anno prima, a causa dell’articolo 17 del regolamento FIFA (secondo cui un giocatore può decidere di rompere un contratto senza giusta causa appena superato il ‘periodo di stabilità’, tre anni prima dei 28 e due dopo, ndr), il club vide andar via Arturo Lupoli e Giuseppe Rossi, e lo stesso avrei potuto fare io, ma alla fine decisi di rinnovare e rimanere lì».

Non dimentichiamo anche che sei tra i pochi giocatori nella storia del calcio ad aver segnato con il ‘colpo dello scorpione’: era il 20 dicembre 2006, Messina-Parma 1-1. «Un ricordo straordinario, indelebile, lo porterò sempre con me. Non solo per il gesto tecnico, spettacolare e molto raro, ma soprattutto perché quello fu il mio primo gol in Serie A. Riguardo a quel momento ho ancora due-tre secondi di vuoto, quelli immediatamente successivi alla rete, cancellati dall’adrenalina e da una gioia irrefrenabile (ride, ndr)».

Dopo Bologna hai deciso di rimetterti in gioco nelle serie inferiori, trovando continuità di prestazioni e gol soprattutto in Serie C: senti ormai che è quella la tua dimensione o è una categoria che ti sta stretta? «Sono dell’idea che se un calciatore fa bene in C significa che ha le qualità per giocare in C, e lo stesso discorso vale per chi si afferma nelle categorie superiori. Il rendimento che sto avendo da qualche anno mi ha fatto capire che questo è probabilmente il campionato più adatto a me, poi è normale e importante non accontentarsi, sognare qualcosa in più e provare sempre a salire, nel mio caso almeno in Serie B».

Con la Juve Stabia l’avevi conquistata sul campo da protagonista nel 2019, poi però le vostre strade si sono separate: come mai? «Dopo la promozione, la società mi ha comunicato di voler acquistare un giocatore di categoria come titolare e anche di non volermi tenere come riserva, temendo che potessi essere un’ombra troppo pesante, visto il mio nome, il mio ingaggio e il campionato che avevo appena fatto. Una decisione che mi ha dato molto dispiacere ma che ho rispettato e accettato subito. Non sapendo come si sarebbe evoluto il mercato di B e avendo già quattro club di C sulle mie tracce, ho preferito mantenere la categoria e scegliere in base sia ai risultati della stagione precedente che alle ambizioni per quella successiva».

La scelta è ricaduta sul Piacenza, dove hai già realizzato 13 reti in 26 presenze: come ti trovi e qual è il vostro obiettivo stagionale, qualora si tornasse in campo? «In Emilia sono sempre stato benissimo e il Piacenza era reduce da uno splendido campionato, quindi non ho avuto dubbi. Oggi lo confermo, è stata un’ottima decisione sotto tutti i punti di vista: società, squadra, tifoseria e città. Fin qui abbiamo avuto qualche problemino ma siamo comunque in zona playoff, sappiamo che il traguardo della promozione è complicato ma se ne avremo la possibilità ci proveremo fino in fondo».

Guardando sempre alla tua carriera, qual è l’allenatore che ti ha dato di più, o comunque quello a cui sei più affezionato? «Sicuramente Mario Beretta, che mi ha fatto esordire in A e mi ha permesso di realizzare quel sogno che avevo fin da bambino: lo ringrazierò per sempre. Poi, tra i vari allenatori molto bravi che ho avuto e che hanno segnato il mio percorso da calciatore, cito in particolare Claudio Ranieri, Francesco Guidolin e Alberto Malesani, con cui ho condiviso la mia prima e positiva stagione a Bologna».

E l’esperienza del 2013 a Montreal quanto ti è servita per maturare, sia come calciatore che come uomo? «Innanzitutto devo ringraziare Marco Di Vaio, che era già in Canada e ha proposto questa soluzione sia alle due società che a me, all’epoca fuori rosa a Bologna. È stata un’esperienza bellissima e indimenticabile che ha cambiato il mio modo di vedere il calcio: in Italia significa spesso pressioni, tensioni, addirittura questione di vita o di morte se pensiamo a come si reagisce ad una retrocessione; là è spettacolo, libertà, felicità, famiglia. Da noi ci sono i tornelli, in America trovi la gente nel piazzale dello stadio che fa il barbecue prima della partita. Un mondo molto diverso dal nostro, forse anche troppo, ma che mi ha fatto riscoprire il vero valore dello sport».

Speriamo che questa bruttissima situazione ci possa servire d’insegnamento, anche in tal senso. «Mi auguro proprio di sì. Come si suol dire, talvolta comprendi il reale valore di una cosa solo quando la perdi, e l’attuale emergenza ci ha tolto tantissime cose belle che magari prima davamo per scontate. Tra queste, mi metto nei panni del tifoso, anche la partita alla domenica con gli amici o i figli, allo stadio o davanti alla TV. Ora ne sentiamo la mancanza, ma bisogna capire che si tratta ‘solo’ di sport e iniziare a viverlo come tale, perché le cose davvero importanti sono altre: qua c’è gente che si sta giocando la vita».

Peraltro la zona di Piacenza è tra le più colpite, le testimonianze che arrivano da lì sono molto forti e toccanti. «Esattamente, infatti colgo l’occasione per mandare un fortissimo abbraccio a tutti i piacentini, visto che qui siamo proprio nel pieno dell’emergenza Coronavirus, ai bolognesi e più in generale a tutti gli italiani che stanno vivendo momenti difficili. Spero che quest’incubo passi il più in fretta possibile e ci si possa ritrovare allo stadio: la voglia di giocare e di stare insieme è tanta».

Anche se il tuo primo pensiero, adesso, immagino sia un altro… «Eh sì, senza dubbio. Mia moglie, i miei due figli e la mia famiglia sono a casa ad Ancona, smanio dalla voglia di rivederli».

Simone Minghinelli

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