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Pasi: “Ho vissuto un Bologna che abbandonava i giovani, oggi è cambiato tutto. Sinisa può fare la storia del club, ai ragazzi dico di mettere sempre il calcio al primo posto”

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Nel calcio ci sono carriere che decollano all’improvviso, non sempre con pieno merito, e altre che malgrado l’impegno e i sacrifici restano radenti al suolo, perdendosi via via nell’anonimato delle categorie inferiori. Nel grande libro della Serie A il nome di Riccardo Pasi, attaccante bolognese classe 1990, ci è finito durante il pomeriggio del 18 aprile 2010, scritto però con inchiostro gialloblù: a farlo debuttare sul palcoscenico più prestigioso fu infatti il Parma di Francesco Guidolin, e non il club della sua città, quello in cui era cresciuto. Da lì in avanti, nonostante un dribbling e un tiro che facevano presagire ottime cose, un onesto percorso tra Serie B, C e D, con in mezzo una nuova e dolorosa parentesi sotto le Due Torri all’alba dell’era Saputo. Oggi Pasi ha 29 anni e, dopo aver concluso una breve ma positiva esperienza al Delta Porto Tolle (18 presenze e 8 gol prima del lockdown), è in cerca di una nuova avventura, sorretto da un incrollabile amore per il pallone. Oggi lo abbiamo intervistato per parlare di lui, viaggiando dal passato al futuro, e di quella che, mettendo da parte l’amarezza, sarà sempre la sua squadra del cuore.

Riccardo, è un piacere ritrovarti: come stai? «Bene, sto completando il recupero da un infortunio avuto lo scorso anno, faccio riabilitazione quasi tutti i giorni. Ero al Delta Porto Tolle ma il 30 giugno mi è scaduto il contratto e non ho rinnovato, ora sono libero di cercarmi un’altra squadra».

Oggi hai 29 anni e la tua carriera non è andata di pari passo col tuo talento: cos’è successo? «Il mio rammarico è ovviamente quello di aver perso tante occasioni. Forse a 20 anni non avevo abbastanza fame, di certo ho avuto parecchia sfortuna, anche se di base non ci credo troppo. Quando nel 2010 sono stato ceduto in prestito al Modena in Serie B per fare trenta partite mi sono rotto il crociato e ne ho giocate tre, mentre il campionato della promozione in A del Bologna lo avevo iniziato bene, ma poi…».

Racconta… «Lopez mi tagliò fuori nel momento in cui arrivò Corvino, che poi nel mercato di gennaio prese sei-sette giocatori nuovi e a me e ad altri ragazzi disse: “Voi dovete andare via”. Ero lì da quindici anni, non un bellissimo trattamento. Ci fosse stata la dirigenza attuale, solida così, e un mister un po’ più qualificato e preparato, magari le cose sarebbero andate diversamente. Quantomeno non sarei in Serie D».

Esatto, come ci sei finito in D? «La storia è abbastanza lunga. Quel gennaio, dopo essere stato messo alla porta da Corvino, Fusco mi propose il Pordenone ultimo in classifica in Serie C, e ricordo che gli dissi: “Ma come, sono primo in classifica in B e dovrei andare lì?”. Per accettare la destinazione chiesi il rinnovo, visto che ero in scadenza, ma Fusco rifiutò e nel mentre si fece avanti la Cremonese: mi proponevano un anno e mezzo di contratto e in panchina c’era Giampaolo, così accettai senza badare alla categoria».

Diciamo che il tuo futuro si è deciso durante una fase di transizione molto delicata per il club. «Sì, e in precedenza le cose erano pure peggio, una roba penosa specialmente per i giovani. In A avevo fatto sette-otto panchine senza mai esordire e senza neanche avere la speranza di riuscirci, invece a Parma in soli sei mesi venti panchine e anche il debutto. E in panchina c’era Guidolin, uno con cui giochi solo se te lo meriti davvero. Mi fa piacere che adesso al Bologna le cose siano cambiate, i ragazzi del vivaio vengono inseriti concretamente in Prima Squadra oppure mandati a giocare in B o in una buona C e seguiti, non lasciati in mezzo alla strada. Io invece sono stato proprio abbandonato».

Non ti viene mai da chiederti: perché Ferrari e Masina sì e io no? «Loro due, a cui voglio molto bene, meritano un plauso per essere riusciti a rimanere ad alti livelli. Perché un conto è esordire, un altro è confermarsi: difficilissimo. Diciamo che a differenza mia sono stati un po’ più fortunati in principio. Se Morleo, il capitano, non si fosse fatto male ad Avellino, Adam avrebbe fatto più fatica ad entrare in formazione. E se Paez non si fosse rivelato inaffidabile, Ferro sarebbe rimasto più indietro nelle gerarchie come centrale».

Solo questione di concorrenza o ci hai messo anche del tuo? «Ricordo che fisicamente stavo benissimo, meglio di tanti altri, ma appunto trovare spazio non era per niente facile: c’erano Acquafresca, Cacia e Laribi, più altri giocatori come Giannone e Troianiello molto vicini a Fusco e che quindi partivano davanti nelle rotazioni. Infine arrivarono anche Mancosu e Sansone… Diciamo che se avessi fatto dieci gol in sette partite avrei potuto avere qualche chance e adesso staremmo parlando d’altro (ride, ndr)».

E qui torniamo all’inizio della storia, ovvero alla discesa fino alla D. «Nei primi sei mesi a Cremona avevo fatto buone cose e mi ero divertito, imparando tanto da Giampaolo, davvero un grande allenatore. Il mio obiettivo era di tornare in B e poi di non scendere più sotto quella categoria, e in precampionato ero stato schierato quasi sempre tra i titolari dal nuovo tecnico Pea, trovando spesso il gol. Poi all’improvviso il 1° settembre, ultimo giorno di mercato, il direttore è venuto da me e mi ha detto di cercarmi un’altra squadra perché non rientravo più nei piani del club. Spiazzato e arrabbiato, ho commesso l’errore di rescindere subito il contratto, non avrei dovuto farlo. A novembre, stanco di aspettare una chiamata, mi sono messo in contatto con l’amico Lorenzo Spagnoli, presidente dell’Imolese, e mi sono accordato con loro. Ottima società, nulla da dire, ma a saperlo prima…».

Era meglio pazientare un altro po’? «Esatto. Si entra in un vortice da cui è difficile uscire: o vinci il campionato e ti guadagni la C sul campo, oppure gli addetti ai lavori cominciano a considerarti quello che è andato in D perché ha già dato e non ce la fa più. Invece nel mio caso non è affatto così, al di là di questo piccolo guaio fisico mi sento benissimo e potrei giocare senza problemi nei professionisti. Paradossalmente, più scendi e più diventa difficile trovare spazio, perché in D c’è la regola dei quattro under obbligatori, ragazzi che peraltro in molti casi giocano un anno e poi si perdono o addirittura smettono».

Quale consiglio ti senti di dare ai vari Mazza, Ruffo Luci e Stanzani, che si stanno affacciando ora alla Serie A? «Sicuramente di martellare sul campo, dando il massimo in ogni singolo allenamento, e di gestirsi bene nella vita privata, curando in primis il riposo e l’alimentazione. Sono cose di cui a 18-20 anni non ti rendi conto, perché sei nel pieno della vitalità, ma a 30 sì. Oggi le cose sono un po’ cambiate rispetto a qualche tempo fa, anche per ragioni economiche in Italia si è ricominciato a lanciare e mettere in vetrina i giovani, piuttosto che affidarsi esclusivamente ai ‘vecchietti’ di nome già arrivati, e bisogna approfittarne».

In sintesi: testa sulle spalle e piedi ben piantati a terra. «Meglio non guardare alle ville e alle macchine, quella è roba che arriva di conseguenza ma non deve rappresentare la priorità: al primo posto ci deve essere sempre il calcio. Purtroppo tanti giovani talenti si perdono perché si focalizzano su altro, ‘spremono’ il presente e non pensano minimamente al futuro, quando invece il periodo tra i 18 e i 30 anni è fondamentale per costruirsi un domani solido. Io mi ritengo fortunato, fino a 25-26 ho giocato a livelli abbastanza alti, senza dubbio potevo fare di più ma ero un professionista, nei Dilettanti ci sono solo da quattro stagioni. Certo, tornare almeno in C mi piacerebbe, ma farlo adesso dopo essere sceso di categoria vorrebbe dire accontentarsi del minimo salariale o quasi, mentre un giocatore di prima fascia in D può guadagnare molto di più e assicurarsi una discreta serenità sul piano economico».

Nonostante quel finale amaro, il tuo cuore resta rossoblù: come lo vedi il Bologna di oggi? «Sono contento che finalmente ci sia una società ambiziosa con un progetto solido. Nel ‘mio’ Bologna si viveva alla giornata, della serie ‘oggi ho un contratto ma magari domani falliamo’, con risultati sul campo a dir poco mediocri. Adesso vedo una proprietà seria, una dirigenza qualificata, un centro tecnico di proprietà tutto rinnovato, un settore giovanile in costante crescita sul quale vengono riversati investimenti e attenzioni importanti. E che sta dando risultati altrettanto importanti, come la vittoria nel Torneo di Viareggio dello scorso anno. È finita l’epoca dei Borini al Chelsea e degli Albertazzi al Milan, anzi, oggi è il Bologna che va ad acquistare i giovani forti da altri club, vedi Cangiano e Juwara»

E poi c’è un allenatore che non si accontenta mai e punta sempre più in alto. «Con Mihajlovic mi sono allenato qualche volta durante la sua prima esperienza sotto le Due Torri, all’esordio da allenatore, quando di tanto in tanto venivo aggregato alla Prima Squadra. Ricordo che fece esordire Casarini a Catania, io e Fede siamo molto amici. Ora, dopo una lunga ma prestigiosa gavetta, perché alla fine è sempre rimasto in Serie A e ha pure guidato la sua Nazionale, mi raccontano di un tecnico estremamente migliorato rispetto a quel periodo, e di un gruppo che lo segue a spada tratta. Questo è fondamentale, perché magari in una big provi a dare la tua impronta caratteriale e a trasferire il tuo credo calcistico ma certe primedonne non ti seguono, mentre qui Sinisa ha trovato un’isola felice e grazie ai risultati ha acquisito potere. Sono convinto che possa scrivere altre pagine memorabili nella storia del Bologna, riportandolo a giocare in Europa già tra un anno. Non sarà facile, ma i soldi e le potenzialità societarie ci sono, quindi mai dire mai».

Simone Minghinelli

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