Il suono del silenzio

Il suono del silenzio

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Manca il sonoro, negli stadi. Uno stadio è vivo quando è circondato e abitato da quei suoni che appartengono a dei rituali ed esprimono delle emozioni.
Uno stadio muto è, nella migliore delle letture, addormentato.
Questo non è un appello alla riapertura, tutt’altro. È solo un ricordo di quello che ci manca.

Suono il clacson. Sbrigati, cazzo!
Non si sbriga, piano B. Fra duecento metri, se non me lo rubano, c’è un posto. Parcheggio lì e me la faccio a piedi.
Scendo, sbatto la portiera così forte che il pupazzetto del Bologna sviene dallo spavento e crolla senza un suono fra i sedili dei passeggeri. Riapro, rianimo, riparto.
La sciarpa che ho legato in vita mi batte sulle gambe ad ogni passo, ciuff ciuff, il suono è debole, forse lo sto immaginando, forse sono già sintonizzato sul ritmo dei tamburi.
Davanti ho un gruppo di ragazzini che fanno ipotesi di formazione. Molti nomi all’unisono, un paio di stonature. Sì oh, quanta gente vuoi mettere davanti? Richiamiamo anche Signori?
Qualcuno più avanti prova a lanciare un coro, nessuno lo segue e lui si spegne.
In via Andrea Costa c’è una cappa di brusio che non si crea in nessun altro punto della città. È un microclima e puoi abitarci solo se ti porti dentro e addosso i colori giusti.
Ci sono quelli che son venuti allo stadio per la prima volta dopo vent’anni di assenza e ogni dieci metri fermano qualcuno per un’indicazione, scusi, per i Distinti?, e intanto orientano il biglietto come fosse una cartina geografica.
Tiro dritto, faccio finta di niente e mi piazzo a metà della fila che porta alla Bulgarelli. Quello dietro di me non si accorge di niente, è impegnato a schiacciare la sua bottiglietta di plastica in fondo allo zaino e fa un casino che coprirebbe un attentato.
Le transenne davanti a cui ci aspettano gli steward rimandano il loro tipico suono metallico ogni volta che qualcuno ci sbatte appena o ci tamburella sopra con le dita mentre passa. Ciondolo le chiavi di casa e della macchina davanti alla pettorina gialla, posso andare?
Davanti ai tornelli ritrovo le immancabili scene di panico di chi non riesce a passare e si sente in trappola, e lo sbuffare di quelli che si sono messi in fila proprio dietro l’impedito di turno.
Salgo le scale e calpesto il primo bicchiere di plastica del pomeriggio. Crac.
Battezzo un punto e provo a calciarlo esattamente lì. Flop.
Forse è meglio se oggi parto in panchina.
Scatta l’applauso, i ragazzi devono essere entrati in campo per il riscaldamento. L’esplosione della solita playlist dagli altoparlanti me ne dà la conferma.
Neanche il tempo di scegliere un posto che il tizio che era dietro di me in coda mi si siede di fianco e fa emergere la bottiglietta dallo zaino: un’altra grande giornata per gli steward di tutto il mondo.
Capto pezzi di conversazioni, Oooh ci sei anche tu? e Oooh ce l’hai fatta ad arrivare! si susseguono a getto continuo. È un rito, con i suoi tempi e i suoi toni. Le pacche sulle spalle sono sempre un po’ più forti di quelle che si danno fuori di qua.
Tre file sotto di me c’è una coppia che sta già litigando per entrare in clima partita, di fianco hanno due fratelli che non arrivano a vent’anni in due. Uno sta mangiando un panino più grande di lui e lo sfrigolio della stagnola che lo avvolge si sente da qui, l’altro si lamenta ad alta voce perché dai ma non prendono la porta neanche adesso che si stanno allenando! Eh papà, hai visto? Eh?
Il Bologna – forse scottato dalla critica – ritorna negli spogliatoi accompagnato dagli applausi, la squadra ospite viene fatta sentire a suo agio sotto una grandinata di fischi. Preventivamente, non si fanno mancare due nomi all’arbitro: saprà meritarseli sul campo.
Ormai ci siamo, ma qualcosa non va. È come un’interferenza, bzzz. Dura qualche secondo, mi tappo le orecchie con le mani per il fastidio, e mi viene spontaneo chiudere gli occhi. Quando li riapro, sono sul divano di casa e lo stadio è vuoto.
Niente cori. Niente urla, incitamenti, insulti, risate sguaiate e nervose. Nessuna felicitazione ai parenti dei guardalinee, dei tifosi ospiti, di quello che ha già steccato due dei nostri in dieci minuti.
Hai scordato i cartellini a casa?
Ricordami perché facciamo ancora giocare lui lì…
MAI i passaggi orizzontali nella propria metà campo, MAI, lo si insegna nelle scuole calcio!
È come se li sentissi, ma non c’è nulla di tutto questo. Solo un gran silenzio.

Fabio Cassanelli

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