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Calcio chiuso ai tifosi, il paradosso continua e il danno economico aumenta

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Mentre a Tallin, nella civilissima Estonia, il 25 luglio ha avuto luogo il primo evento di basket aperto al pubblico in Europa (un torneo amichevole tra le tre Nazionali baltiche, con 1.500 spettatori ammessi al palasport), in Italia assistiamo ancora al perdurare della surreale serrata degli stadi – almeno – fino al 7 ottobre. Luoghi all’aperto, capaci di ospitare fino a 80.000 persone, trattati come pericolosi ricettacoli di contagio. Mentre in estate le discoteche venivano incautamente tenute aperte scatenando la maggior parte dei focolai che hanno contribuito al pur tenue rialzo dei contagi, lo sport italiano è finito ancora una volta nel tritacarne della demagogia.
Chiudere il calcio, tagliargli la testa senza cercare di trovare una minima soluzione, ancorché simbolica, è parsa la soluzione migliore per non sfigurare con le folle ringhianti e impaurite. Ma a questo giro il paradosso è diventato addirittura ridicolo. In Lombardia, per esempio, fino al 15 settembre è ammessa la presenza del pubblico al 25% della capienza sui campi al chiuso di Milano, Varese, Cremona e Brescia per ospitare le gare della Supercoppa di basket. Ma San Siro, no, resta off limits. Un bravo epidemiologo dovrebbe spiegarci perché mille persone che starnutiscono al chiuso sarebbero meno pericolose di qualche migliaio di tifosi distanziati e sorvegliati da steward (oltretutto con l’indubbio vantaggio di avere costante monitoraggio da parte dei media sul rispetto dei protocolli).
L’ostinazione con cui il Ministero si accanisce sul calcio comincia già a proiettare i suoi effetti violenti sui bilanci. Ogni giornata senza pubblico porterà con sé un danno da 7-8 milioni a turno: è come se tutto il movimento Serie A rinunciasse di colpo a 300 milioni l’anno, in media il 14% del fatturato di ciascun club, secondo i calcoli effettuati recentemente da Calcio e Finanza. La Juventus, che ogni partita raccoglie dai 2,5 ai 4 milioni a seconda del calibro dell’avversario e della manifestazione, è ovviamente in cima alla classifica delle perdite. Ma gli effetti sarebbero ovviamente più devastanti sulle società più piccole, che in proporzione vivono in maniera più diretta i benefici del botteghino.
Come mai il calcio è ancora l’unico ambito della vita sociale (oltre ai teatri e ai cinema, altra nota dolentissima) per il quale non si è ancora previsto un piano B? Quale cronica ostilità impedisce di considerare le società di Serie A degli interlocutori attendibili, loro che ogni anno muovono miliardi di tasse per il fisco? Perché ai gestori delle discoteche è stata data udienza ben prima che ai presidenti di A? Saremmo contenti di ricevere risposte. Non dico soddisfacenti, almeno credibili.

Luca Baccolini

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