Chi scommette, per definizione, non è uno sportivo. E le società di calcio dovrebbero istituire test d'ingresso comportamentali

Chi scommette, per definizione, non è uno sportivo. E le società di calcio dovrebbero istituire test d’ingresso comportamentali

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Cosa spinge un calciatore milionario a giocare, magari pure a perdere, di sicuro a rovinare la sua vita? Perché un uomo ricco, attraente, famoso, con prospettive di guadagno sempre maggiori, si trasforma in un demone del gioco proibito? Da dove nasce questa tentazione? Perché nasce? Perché anche in caso di vincite enormi (oppure di perdite consistenti) l’uomo non riesce a staccarsi dagli allibratori? È forse una sfida? È solo voglia di accumulare altro denaro? È il desiderio di dire a se stesso e alla cerchia di amici «ecco, l’ho fatta franca»?
È fuori discussione che la scommessa sia una forma di droga sotto mentite spoglie. Ludopatia, in termini tecnici. Ma già Dostoevskij, ne Il giocatore, ci poneva davanti ad una grande verità: il gioco non è un problema di mancanza di cultura. Chi gioca è una vittima a prescindere dal ceto sociale, è una vittima che diventa poi carnefice verso gli altri e verso se stesso. Aleksej Ivanovic, il protagonista del romanzo, è un debole, un insicuro, un rabbioso. Desidera mostrare al mondo quanto vale. E nel fare questo mostra i vizi irredimibili che si annidano in fondo alla sua anima. Chi gioca è un arrabbiato verso il mondo, perché sa che in breve tempo sarà risucchiato nell’abisso. E nonostante questo tenta ogni volta la sorte, con immutata determinazione. Il giocatore è per definizione un perdente.
Proprio qui, forse, sta il grande paradosso dello sportivo che si lascia sedurre dalle scommesse: come può la sua formazione antropologica, orientata essenzialmente sulla vittoria, conciliarsi con un sistema di pratiche che conduce necessariamente e anche nel migliore dei casi alla sconfitta? Su questo bisognerebbe che riflettessero le società di calcio. Agendo poi di conseguenza. Con test d’ingresso intellettivi e comportamentali, prima, e poi con corsi di formazione, assistenza psicologica continuata, educazione e avviamento a pratiche culturali positive, tutto quello che contribuisce ad allontanare un ragazzo di vent’anni dalla distruzione del sé. I club acquistano a suon di moneta i corpi dei calciatori, però si dimenticano della loro anima. E l’anima, quando non governata, spesso prende il sopravvento.

Luca Baccolini

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Foto: Getty Images (via OneFootball)