«Il calcio è una metafora della vita», intuì Jean Paul Sartre. Ma forse è vero anche il contrario: la vita è una metafora del calcio, soprattutto quando si subisce un gol al 90′ (magari dopo ‘attenta’ rilevazione VAR). Nel corso del tempo poeti, filosofi e scrittori hanno trovato in questo sport un riflesso dell’esistenza più vero dell’esistenza stessa, una rappresentazione del sogno, della fatica e della speranza. Che, come insegna Turandot, «delude sempre».
Calcio e letteratura, in fondo, condividono un legame profondo: entrambi raccontano l’uomo ma soprattutto il suo bisogno di dare forma al caos. Lo aveva intuito anche un ‘antisportivo’ come Giacomo Leopardi, che nella poesia A un vincitore nel pallone esaltava la forza fisica e la vitalità dell’azione, perché la vita, come il gioco, dev’essere affrontata con coraggio e passione, senza restare inerti. Per Leopardi l’importante non era vincere, bensì agire, trasformare l’ignavia in movimento. È l’azione, anche apparentemente la più inutile, a rendere degna un’esistenza.
Ed è proprio Pier Paolo Pasolini, di cui oggi si ricordano i 50 anni esatti dell’assassinio, a portare questa riflessione al livello più alto e consapevole. Noi tutti che amiamo il calcio dovremmo mandare a memoria la sua visione di questo sport, una «forma d’arte», un «linguaggio dotato di sintassi e poesia», ovvero «l’ultima rappresentazione sacra del nostro tempo», indicando nel gioco del pallone un rito collettivo dove tutti, a prescindere dalla provenienza sociale, si riuniscono per condividere un’estasi estetica.
E siccome «il calcio è un linguaggio con i suoi poeti e prosatori», Pasolini ci inquadra anche la struttura linguistica del football, fornendo strumenti che oggi sarebbero utilissimi ai legislatori del pallone: il giocatore che passa la palla «parla» con un compagno, l’azione costruita è una «frase», il gol è una «parola poetica», la più intensa e irripetibile. Da questa intuizione nasce una delle sue distinzioni più celebri: il calcio «in prosa» e il calcio «in poesia». Il primo ordinato, razionale, geometrico, espressione della cultura europea; il secondo libero, creativo, imprevedibile, incarnato dal Brasile, dove ogni giocatore è un artista capace di inventare un linguaggio personale. Forse oggi non è più così netta la differenza tra Europa e Sudamerica, ma la metafora rende ancora bene l’idea.
Ma Pasolini non parlava solo da teorico: il calcio lo viveva, come testimoniano le fotografie e i racconti di chi lo incontrava nei campetti delle borgate romane, dove scendeva in campo mescolandosi agli sconosciuti. Giocava con serietà, quasi con devozione, e il suo ruolo in campo (ala, come Orsolini) non era casuale: amava partire dal margine, da quella posizione ‘obliqua’ che era anche la sua prospettiva controcorrente sul mondo.
Per lui il calcio era una via, forse la via maestra, per rimanere in contatto con la realtà, con la fisicità della vita, lontano dai salotti e dai discorsi ipocriti dell’intellettualità medio borghese. In quelle partite improvvisate trovava un modo di restare umano, di condividere la gioia semplice e universale del gioco, un modo per abbracciare la contraddizione, la fatica, la terra. Il calcio come luogo di teatro totale, senza compromessi, in cui arte, poesia e corporeità si fondono.
E poi il legame col Bologna, la sua porta di accesso al tifo. «I pomeriggi che ho passato a giocare a pallone sui Prati di Caprara (giocavo anche sei-sette ore di seguito, ininterrottamente: ala destra, allora, e i miei amici, qualche anno dopo, mi avrebbero chiamato lo ‘Stukas’: ricordo dolce bieco) sono stati indubbiamente i più belli della mia vita. Mi viene quasi un nodo alla gola, se ci penso. Allora, il Bologna era il Bologna più potente della sua storia: quello di Biavati e Sansone, di Reguzzoni e Andreolo (il re del campo), di Marchesi, di Fedullo e Pagotto. Non ho mai visto niente di più bello degli scambi tra Biavati e Sansone (Reguzzoni è stato un po’ ripreso da Pascutti). Che domeniche allo stadio Comunale!». Ecco Pasolini, il nostro tifoso più bello.
Luca Baccolini
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