Fisico d'acciaio e umana fragilità, leader silenzioso e umile maestro: gracias y suerte, Ruso

Fisico d’acciaio e umana fragilità, leader silenzioso e umile maestro: gracias y suerte, Ruso

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Che fine ha fatto Diego Perez? È la domanda che ci siamo posti un po’ tutti. E alla fine è servito il suo addio per ricordarci che Diego era sempre in mezzo a noi, con la maglia del Bologna addosso, anche se con un ruolo diverso. ‘El Ruso’ se ne torna in Uruguay per seguire come vice allenatore la Nazionale Under 20: scelta di vita e di radici, visto che là è nato 42 anni fa, cominciando una carriera che lo ha portato a vincere la Copa América, a conquistare un quarto posto ai Mondiali e a vestire la maglia della Celeste ben 89 volte. Molto più che un mediano di rottura, un simbolo del rinato Uruguay.
Tutti abbiamo amato il ‘Ruso’, per il suo modo di stare in campo, per la serietà e, soprattutto, per il silenzio. (Quasi) mai una polemica, mai una parola di troppo. La sua maniera di esprimersi era tutta nell’impregnare la maglia di sudore e nel portare tackle sui malcapitati che incrociavano la sua traiettoria. La carriera da collaboratore tecnico delle giovanili rossoblù è stato il suo modo per continuare a servire la causa, onorando l’amicizia più che decennale con Marco Di Vaio, ex compagno di squadra già al Monaco. È stato proprio grazie a quel rapporto se nel 2010 un semifinalista della Coppa del Mondo è potuto sbarcare sotto le Due Torri. Gli altri argomenti furono forniti dalla dialettica di Carmine Longo, che nella stessa estate riuscì a portare qui anche Gaston Ramirez.
Tre stagioni ad altissimo livello, per il ‘Ruso’. La quarta, invece, scivolò verso un inspiegabile buco nero che risucchiò non solo lui ma tutti i protagonisti di quel Bologna, predestinato alla Serie B e a forte rischio fallimento. Il tramonto agonistico di Perez è stato fin troppo precoce, pensando ad altri colleghi meno dotati di lui ma più longevi: a 35 anni appena compiuti aveva già detto addio al calcio giocato. Di fatto la decisione, ufficializzata l’11 luglio 2015, maturò nella disgraziata stagione 2013/14, culminata con la retrocessione. Certo pesò l’addio di Diamanti a febbraio. Ma anche lo scivolamento di Diego nelle retrovie ebbe la sua importanza. Nel girone di ritorno, durante le partite cruciali, giocò appena 5 minuti contro l’Inter e circa 15 contro il Parma. Con Juventus e Fiorentina si limitò ad assistere, dalla panchina. Quali i motivi? Lui disse a Ballardini che si trattava di problemi fisici. «Ad un ginocchio», confermò l’allenatore ai cronisti. «Ai flessori», lo corresse il club.
L’ultima partita da titolare la disputò al Dall’Ara contro l’Atalanta, e da una sua indecisione nacque il gol di De Luca al 22′. All’intervallo chiese al tecnico di non rientrare. Steven Gerrard, che proprio in quei giorni propiziò in maniera simile il k.o. che al Liverpool costò la Premier, decise di rimanere dentro. Sono scelte, entrambe da rispettare. E se quello di Diego sia stato un gesto nobile o una fuga dalle responsabilità, o più semplicemente la presa d’atto di un momento non brillante, non sta a noi dirlo. Qualcuno sosteneva che si fosse completamente scaricato, non solo fisicamente, altri tirarono in ballo i suoi mai semplici rapporti con la proprietà di allora. Ma di sicuro non si arriva quarti ad un Mondiale né si vince una Copa América per caso.
Dall’estate del 2010, cioè da quando arrivò a Bologna come sedicesimo uruguaiano della storia rossoblù, si è imposto come un vero leader, il simbolo di quella garra che è sempre stata la sua cifra professionale, a dispetto di piedi abbastanza ruvidi. A noi resta il grosso rimpianto di non averlo avuto a disposizione in quel momento così delicato, quando il suo carisma, la sua esperienza e quella sua ruggente cattiveria sarebbero serviti come il pane, anche solo dalla panchina. La leadership, del resto, si può esercitare pure da lì, con due occhiate luciferine e quattro urla ben assestate. Auguri di cuore ‘Ruso’, in ogni squadra che si rispetti dovrebbe sempre esserci uno come te.

Luca Baccolini

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