L'imponderabile leggerezza di essere Nico

L’imponderabile leggerezza di essere Nico

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Vincere aiuta a vincere, si sa. Ma è difficile capire cosa ci sia davvero dietro ad una frase fatta come questa.
Chissà cosa ne pensa Nicolas Martin Dominguez, che nel 2019 di vittorie ancora non se ne intendeva ma all’orizzonte, grazie alle sue prestazioni col Vélez in Argentina, vedeva comunque prefigurarsi un futuro roseo.
In effetti, se sbarchi a Bologna e sul passaporto hai una bandiera bianca e azzurra con al centro il Sol de Mayo, più di qualche sopracciglio lo farai alzare: è fortissimo e quasi inspiegabile, ad esempio, il legame che lega Bahía Blanca al capoluogo emiliano, indipendentemente dal fatto che la palla si giochi con le mani (Manu Ginobili) o coi piedi (Rodrigo Palacio). Ma la lista di argentini – più o meno validi – transitati sotto le Due Torri è lunga, dai tre fratelli Badini negli anni Dieci e Venti fino a Julio Ricardo Cruz.
Senza però soffermarci troppo sulla provenienza geografica, considerando semplicemente il fatto che tu sia un nuovo giocatore, argentino, che può vantare qualche presenza in competizioni importanti con l’Albiceleste… beh, le aspettative non possono far altro che puntare verso l’alto.
A gennaio del 2020, concluso un breve periodo in prestito nel suo club d’origine, Bologna e il Bologna accolgono infatti un ragazzo argentino sì con ottime referenze, ma che inevitabilmente porta con sé tutti i dubbi legati alla giovanissima età (21 anni) e zero conoscenza diretta del calcio italiano, che risulta spesso abbastanza complicato per gli stranieri.
Ed effettivamente, nonostante un esordio da stropicciarsi gli occhi all’Olimpico di Torino, Nico fatica a trovare la sua posizione e la sua dimensione dentro un’idea di calcio diversa rispetto a quella a cui era sempre stato abituato in patria, guidato da un sergente di ferro come Sinisa Mihajlovic per cui o ti adatti e impari alla svelta o sei fuori.
Così le critiche non tardano ad arrivare, tacciandolo di essere ampiamente sopravvalutato, inadatto e pagato fin troppo.
Per il primo anno e mezzo, complicato anche dalla pandemia di COVID, Dominguez non riesce a trovare la titolarità fissa e vive di lampi, molto potenti ma pur sempre brevi. Deve combattere con uno Svanberg spesso decisivo e uno Schouten pressoché inamovibile, oltre che appunto con un gioco che non si confà pienamente alle sue caratteristiche.
Il turning point però, come spesso accade, arriva dal suo Paese: Copa America 2021. Lì Nico, reduce da un brutto infortunio al ginocchio, si ritrova, tanto da essere utilizzato spesso in un’Argentina dal potenziale infinito.
E qui si torna al punto di partenza: vincere aiuta a vincere.
Sì perché Nico quella coppa la vince, non da semplice comprimario ma da parte integrante delle rotazioni di una rosa che riporta la Copa a casa dopo 28 anni dall’ultimo successo, nel 1993 in finale contro il Messico con doppietta di Batistuta.
Quel trofeo, tornato tra le braccia degli argentini, riconsegna al BFC un giocatore diverso, forse maturato e più consapevole dei propri mezzi, di sicuro una imprescindibile nello scacchiera di Mihajlovic.
Non siamo qui a parlare di tecnicismi tattici o cambi di interpretazioni, ma a riconoscere la perseveranza di un ragazzo che non ha mai voluto ascoltare le critiche piovute su di lui, lavorando sodo e facendo tesoro dei consigli sia dell’allenatore che del ‘fratello’ maggiore Gary Medel, uno che potrebbe tenere lezioni universitarie su come si deve comportare su un campo da calcio se si vuole vincere.
Il futuro di Dominguez poggia ora su un presente più solido ed è tutto da scrivere, sperando ovviamente che rimanga colorato di rossoblù, oltre che di albiceleste, il più a lungo possibile.

Lorenzo Bignami

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