Le tre lezioni di Sinisa

Saputo e la società sempre al fianco di Sinisa: affetto e fiducia non sono mai venuti meno

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Sul corpo martoriato e fiero di Sinisa Mihajlovic si è scritto molto, ma non sempre a segno. Per fortuna restano le immagini, che parlano senza bisogno di didascalie. E questo repertorio di immagini può dividersi in due capitoli: la forza di Sinisa e l’affetto della squadra.
La forza di Sinisa è quella che ha bucato gli schermi (e le coscienze) a Verona, quando dopo quaranta giorni di chemioterapia si è voluto presentare allo stadio sfidando il parere dei medici; la forza di Sinisa è stata quella di raccontare in prima persona i propri problemi di salute, senza drammatizzarli né minimizzarli secondo quella discutibile scuola di pensiero contemporanea che ci vorrebbe presentare le malattie come opportunità; la forza di Sinisa è quella che lo spinge a lavorare anche da una stanza d’ospedale, ed è la stessa che lo riporta in campo alla prima occasione utile.
L’affetto della squadra, invece, è la parte meno scontata della faccenda. Nello spogliatoio rossoblù non c’è un solo giocatore che non abbia stabilito un rapporto empatico con l’allenatore. Le visite al Sant’Orsola dell’intero gruppo, panchinari compresi, sono solo la punta visibile di una relazione profonda, che difficilmente potremmo immaginare nei suoi aspetti più intimi. Una relazione fatta di lealtà e schiettezza che abbraccia tutti i ragazzi, anche quelli apparentemente fuori dai giochi.
A leggere certe ricostruzioni, sembra che la dirigenza rossoblù sia completamente staccata da questo contesto, come se esistesse un Bologna fatto da Mihajlovic e calciatori e un altro Bologna composto da oscuri personaggi in giacca e cravatta. Peccato però che ogni giorno entrambe le componenti si ritrovino a Casteldebole, mangino allo stesso tavolo, lavorino per lo stesso club e, di tanto in tanto, riescano anche a togliere qualche soddisfazione al pubblico pagante.
Mihajlovic ha toccato le 127 panchine consecutive nel BFC. Il massimo di resistenza nella sua carriera era stato 64 con Massimo Ferrero alla Sampdoria. Viene difficile credere che un tecnico che resiste su una panchina per più di tre anni abbia ricevuto o stia ricevendo un trattamento inadeguato da parte della sua società. A maggior ragione se in un periodo assai delicato, dopo il trapianto di midollo osseo e il graduale ritorno ad una vita normale, è stata proprio questa società a decidere, rischiando, di allungare il contratto al mister. Un segnale di fiducia nel professionista, prima ancora che nell’uomo.
Dentro tale scenario, Saputo ha continuato a fare il Saputo, ovvero il presidente delegante. Che non significa menefreghista, sul piano lavorativo né tantomeno su quello umano, con buona pace dei perenni detrattori. È un modello che può piacere o non piacere, di sicuro molto straniante per chi è cresciuto col paradigma del presidente-padrone onnipresente, panciuto e piacione. Un modello anni Novanta, ormai morto e sepolto.

Luca Baccolini

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