'Renato sono io', ritratto senza censure del mitico presidente Dall'Ara

‘Renato sono io’, ritratto senza censure del mitico presidente Dall’Ara

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Certi miti rimangono illesi col passare degli anni, avvolti nell’aura eroica delle gesta compiute, scaldati dai ricordi, vissuti o tramandati, di chi ancora oggi ne segue la scia. A volte però occorre rinverdirli quei ricordi, dar loro sostanza concreta per evitare che le pagine della storia si ingialliscano. «Il tempo che passa mette polvere sui dettagli», sostiene Marco Tarozzi, che ha dipinto il profilo di uno dei personaggi più importanti della storia rossoblù, il presidente Renato Dall’Ara. Renato sono io è il ritratto (scritto in prima persona ripercorrendo gli ultimi tragici istanti che precedettero la sua morte, avvenuta in uno studio milanese il 3 giugno 1964) non solo del grande imprenditore e dirigente sportivo, ma dell’uomo che ha forgiato la sua fortuna con la forza delle sue idee, una forza guidata da un grande intuito che più di una volta gli permise di fiutare prima di altri occasioni di successo.

Renato Dall’Ara allo stadio Comunale di Bologna insieme al sindaco Giuseppe Dozza

«Se ho potuto tracciare un profilo del presidente – spiega l’autore – è grazie ai racconti dei suoi nipoti. Non trovavo un libro che dicesse chi era prima di prendere il Bologna: ho cercato di ricostruire la sua gioventù e, grazie alle loro testimonianze, ho scoperto un’altra parte di lui. Mi sono chiesto chi fosse davvero e in questo modo ho sfatato qualche luogo comune sulla sua persona, per esempio il fatto che non ne capisse niente di calcio. Assolutamente falso: era un grande appassionato e il Bologna lo seguiva ancor prima di entrare in società. E non era vero nemmeno che fosse un ignorante, come è stato più volte descritto. Anzi, era una persona acuta ed intelligente, arrivava prima sulle situazioni e applicava quel suo intuito anche ai giocatori, come per Nielsen e Haller (giocatore che inseguì per mesi e che quasi gli costò la vita in un incidente d’auto di ritorno dalla Germania, col suo contratto in tasca), che prese quando erano ragazzini alle prime armi e ne fece campioni affermati».

Renato Dall’Ara osserva i giocatori del Bologna durante un allenamento al Comunale 

Salito in sella nel 1934, Dall’Ara è stato il presidente più vincente della storia del Bologna Football Club, conquistando cinque scudetti, una Coppa dell’Europa Centrale, il Torneo dell’Expo di Parigi, una Mitropa Cup e una Coppa Alta Italia. «Alcuni sostengono che il Torneo dell’Expo – racconta Tarozzi – fosse considerato come una sorta di Mondiale per club, anche se all’epoca erano presenti solo compagini europee, mentre la Mitropa Cup un’antesignana dell’attuale Champions League». Lungi dal contraddire chiunque, si può senza dubbio sostenere che il BFC tra gli anni Trenta e i primi Quaranta fosse la squadra più forte in circolazione, e gran parte del merito andava a quel presidente che sapeva scovare giovani talenti (conducendo le trattative in prima persona, cosa che fece di lui uno dei padri del calciomercato) da far crescere in casa, e si guardava bene dal cederli, anche davanti ad offerte consistenti. E i giocatori di rimando, per riconoscenza e senso di attaccamento alla maglia, non paventavano nemmeno l’ipotesi di lasciare il Bologna.

La prima pagina di un quotidiano che celebra il trionfo rossoblù al Torneo dell’Expo di Parigi 1937

Dall’Ara, che di figli con la moglie Nella non ne aveva avuti, assumeva un atteggiamento protettivo nei confronti dei suoi calciatori, a cui trovava spesso un alloggio dopo il trasferimento sotto le Due Torri, pur senza regalare nulla. Era molto astuto nelle trattative (come racconta nel libro l’ex secondo portiere dello scudetto ’64, Rino Rado) e sapeva come trattare i giocatori, cercando di limare sempre al ribasso le loro richieste di adeguamento dell’ingaggio. Ma sapeva anche essere generoso con loro, e a fine campionato arrivavano spesso dei premi.

Il presidente Renato Dall’Ara nella sua abitazione a Bologna

La guerra tolse però smalto ai rossoblù, che negli anni successivi al Secondo conflitto mondiale faticarono a ritrovare la via del successo e più di una volta rischiarono la retrocessione. Dopo vari tentativi a vuoto, nel 1961 il presidente decise ancora una volta di affidarsi al suo istinto e affidare la squadra ad un allenatore che non promise successi immediati, ma arrivò a Bologna dichiarando che per costruire una squadra pronta a lottare per il titolo vi sarebbero voluti tre anni: Fulvio Bernardini, e la storia racconta che fu di parola. «Quel Bologna fu costruito tassello dopo tassello, acquistando giovani promettenti che spesso indispettivano la tifoseria – spiega sempre Tarozzi –, dal momento che erano dei signor nessuno e invece ci si aspettava dei campioni. È il caso di Pascutti, di Furlanis, e infine dell’ultimo decisivo innesto, quel William Negri preso dal Mantova che diede solidità ad un reparto difensivo ancora troppo ballerino».

Una formazione del Bologna per il campionato di Serie A 1963/64

I felsinei si dimostrarono in grado di contendere il titolo 1963/64 al Milan fresco campione d’Europa e alla grande Inter del ‘Mago’ Herrera, che la Coppa dei Campioni l’avrebbe alzata proprio in quella stagione. Ma a marzo, mentre veleggiavano verso l’agognato scudetto da primi della classe, arrivò una mazzata che mise a dura prova il cuore di Dall’Ara: cinque giocatori del Bologna, dopo la partita vinto 4-1 contro il Torino, furono trovati positivi al controllo antidoping: sconfitta a tavolino e un ulteriore punto di penalizzazione, che toglievano il primato e un bel po’ di certezze alla squadra. Furono mesi d’inferno ma a maggio, grazie agli avvocati sguinzagliati dal presidente, si riuscì a dimostrare l’innocenza del club, così i tre punti vennero restituiti. Bologna e Inter arrivarono quindi alla fine del campionato a pari merito: serviva uno spareggio per eleggere i campioni d’Italia.

La morte di Renato Dall’Ara raffigurata sulla copertina della ‘Domenica del Corriere’ (14 giugno 1964)

«Il patron Moratti aveva ben altre facoltà rispetto a Dall’Ara, motivo per cui il presidente volle andare personalmente a Milano per trattare i premi scudetto. Un viaggio sconsigliatissimo dal medico, che qualche mese addietro l’aveva obbligato a recarsi per un periodo a Napoli per rimettersi in sesto e dare un attimo di tregua al suo cuore malandato. Niente da fare, non poteva permettere che i suoi calciatori fossero considerati qualcosa dei meno dei colleghi interisti. Quella trasferta gli risultò fatale, e la sua dipartita, a quattro giorni dal match decisivo, fu una spinta determinante per il suo Bologna, che il 7 giugno 1964 all’Olimpico di Roma si cucì sul petto il settimo scudetto e onorò nel miglior modo possibile la sua memoria».

I giocatori del Bologna festeggiano la conquista del settimo scudetto sul prato dell’Olimpico (7 giugno 1964)

Giuseppe Mugnano

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Foto copertina: minervaedizioni.com