Cinque mesi per prepararsi e partorire una brillante soluzione: chiudere, di nuovo.

Cinque mesi per prepararsi e partorire una brillante soluzione: chiudere, di nuovo. E sempre i cittadini a farne le spese

Tempo di Lettura: 2 minuti

Uscendo per un attimo dall’argomento calcio, approfitto di questo spazio per un piccolo sfogo da semplice cittadino. Leggo e ascolto che, a soli tre giorni di distanza dal Dpcm che ha introdotto le prime limitazioni alla cosiddetta ‘movida’, nelle prossime ore il premier Giuseppe Conte potrebbe optare per un’ulteriore stretta per contenere la crescita dei contagi di COVID-19 (ieri 8.804). Ricorre con insistenza la parola ‘coprifuoco’, che rimanda a periodi storici ben più bui, si torna a parlare di didattica a distanza e di ulteriori blocchi agli sport di contatto, senza cancellare del tutto l’ipotesi di un altro lockdown. Evviva.
Ora, senza voler scadere nella retorica e senza fare troppe distinzioni tra rossi, neri, gialli, verdi e blu, mi chiedo: cosa è stato fatto da giugno ad oggi per scongiurare lo scenario attuale? Applausi per la brillante gestione dell’emergenza (migliore rispetto ad altri Paesi, è innegabile), parole rassicuranti («prima eravamo impreparati, adesso sappiamo cosa aspettarci e come muoverci»), estate bella serena e movimentata, solite raccomandazioni ai cittadini (distanziamento, lavaggio frequente delle mani, uso delle mascherine, download dell’app Immuni ecc.) che talvolta si sono trasformate in minacce (si veda il linguaggio da sceriffo di qualche presidente di regione), banchi a rotelle e monopattini elettrici.
E ora che ci stiamo impantanando di nuovo, la grande soluzione partorita negli ultimi cinque mesi è sempre la stessa: chiudere. Scuole, cinema, teatri, bar, ristoranti, centri estetici, palestre, calcetti e così via, in barba ai primi timidissimi segnali di ripresa economica (e psicologica, aggiungo). Il tutto mentre autobus e metropolitane sono stipate, e non si sa abbastanza dei controlli effettuati (si spera) nelle fabbriche e in altri luoghi di lavoro dove l’assembramento è la regola. Mentre si scopre che almeno 3.000 posti di terapia intensiva per i quali il Governo aveva sì stanziato i fondi sono ancora da realizzare, molte regioni sono già vicine al limite della saturazione dei posti in rianimazione e 1.500 ventilatori che effettivamente sarebbero disponibili non trovano collocazione (parole del commissario per l’emergenza Domenico Arcuri, non mie). È l’Italia, bellezza.
Intendiamoci: se non rispettiamo le regole, se facciamo i furbi, se ci affidiamo al fato, se crediamo ciecamente ai ciarlatani che parlano di «virus clinicamente morto», se ci lasciamo affascinare dalle teorie dei no-mask e no-vax, la colpa è anche nostra. Ma non è solo colpa nostra, anche perché la grande maggioranza degli italiani si è comportata e si sta ancora comportando bene, alla faccia dei soliti stereotipi triti e ritriti. No, perdonatemi, io questa impreparazione, questa approssimazione, questo procedere per tentativi, cambiando idea da un giorno all’altro, dopo che anche i muri sapevano che saremmo andati incontro ad un autunno-inverno difficile, non li accetto. L’iceberg era ed è ancora lì, bello grosso, e non si trasformerà in un cubetto di ghiaccio: i passeggeri possono anche metterci tutta la buona volontà possibile, ma sta a chi comanda la nave fare del suo meglio per evitare l’impatto.

Simone Minghinelli

© Riproduzione Riservata