Frammenti del Solferino e del Mirasole Grande - Elegia in sette movimenti (Primo movimento: Miramonte)

Frammenti del Solferino e del Mirasole Grande – Elegia in sette movimenti (Primo movimento: Miramonte)

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«A chi ha perduto quello che non si ritroverà mai più… Perché il volto di una città muta più in fretta del cuore dell’uomo». [Charles Baudelaire]

Non fu incombenza che gravò solo sul Carletto ‘Braccio d’oro’ il dover sottostare al giudizio del genitore per sperare nei sorrisi della bella. Sereno, che abitava al 15 di via Miramonte (il 13 non c’era), aspettava tutte le sere sotto il portone di casa, nella più ‘altolocata’ Savenella, una ragazza il cui nome è andato perduto; non era infatti la Jolanda che si alternò con lui per anni e anni al banco dei limoni all’angolo tra Marchesana e Clavature, che all’altro angolo c’era ancora Melega.
Stava dunque Sereno per l’ennesima volta ad aspettare, quando alfine scese il padre di lei e disse:

«Al dégga bän sô żuvnòt, Sereno o nóvvel?».

E in quel ‘nóvvel‘ era già sentenziata, come ognuno capisce, tremenda, la bocciatura.

«Al dégga bän sô żuvnòt, che intenziån avîv?». «Che ci dica giovanotto, che intenzioni avete?».

E Sereno rispose: «Chi, mé? Ah mé gnînta! Buonasera». E desisté per sempre.

Sereno abitava dunque al 15, davanti al luogo dove mi trovo in questo momento, nella stessa scala di Màppede Budellacci, che a sua volta abitava in casa dell’Anita d’i can, Anita dei cani, e del tassista Monari. Di fronte c’era la bottega del barbiere ‘Crudele’, così nominato perché, con spiccia imperizia, «al tajéva la fâza a tótt», tagliava la faccia a tutti. Più in là abitava Eugenio, il calzolaio.
Via Miramonte, Mirasole di sotto (attuale via Solferino), Mirasole di sopra e vicolo del Falcone, tre Mirasoli. Paglia, Paglietta, Tovaglie e Savenella erano già fuori. Viaggio ad occhi chiusi e soffro ancora sull’eco dei resoconti di Baccilieri, lontani, frammentari, imprecisi, come sulla trama di basso continuo di una partitura musicale.
C’erano già dei meridionali, meglio, delle meridionali, prima che ci capitassi anch’io. La signora Tullia, suocera di Giulianån Tinti, Campobasso, era una napoletana per i bolognesi. C’erano già delle meridionali perché nel quartiere c’erano due case chiuse, una al 5 di Miramonte, l’altra nell’attuale Hotel San Mamolo in via del Falcone. E tre o quattro, come la Romanina e la ‘Bella Napoli’, che facevano il mestiere in casa per non dare la percentuale alla maîtresse. C’era la porta aperta, passava il militare dal térz artiglierì e i fèvan la marcàtta per poche lire. Ma da metà degli anni Sessanta in poi i Mirasoli son stati ‘contaminati’ dalla migrazione nostra. Il bolognese che «aveva fatto i soldi» cercava di spostarsi dai Mirasoli, perché il bolognese «è una brutta persona», l’é brîsa argoiäus d’èser nèd int i Mirasù e allorché ci si cava. Per lui tutti quelli d’i Mirasù son delinquenti. Infatti han scritto anche la canzonetta Azidènt ai Mirasù chi én l’arvéṅna ed tènta żänt: l’ha scritta proprio uno che stava nei Mirasù.
In alto sugli scalini del Miramonte sta Baccilieri e canzona Bologna, là sotto, chiusa dai tribunali. La calma della sua figura è solenne, la sua invettiva una preghiera.
«Si dice del piemontese, falso e cortese, del genovese parsimonioso, del lombardo macinato dal lavoro… Del bolognese invece cordiale, generoso, vitaiolo, aperto, comprensivo, dotto, tollerante e intelligente, mentre è l’esatto contrario: grezzo e ignorante, di un’ignoranza travestita che si fa scudo dell’università di Bologna solo perché la più antica. Avaro, diffidente, inospitale, opportunista. Anche se, avendo dieci minuti e potendo proprio perderli, è capace che se gli chiedi una via ti accompagna personalmente. E vestito di una falsa bonomia che lo rende simpatico agli altri, dà l’impressione di essere aperto e invece è chiusissimo e ha dei catenacci che quando li chiude non ci va più dentro nessuno». Talché Bologna farebbe i maggiori interessi di chi costruisce casseforti e allarmi, perché «se anche han cento scudi devono essere sicuri che non glieli portano via; anche se van quindici giorni a Cesenatico muran porte e finestre».
Di scalino in scalino, di colonna in colonna proseguo sotto i portici, mentre ridiscendo il Miramonte mi accompagna il rullante sommesso della voce di Baccilieri.
Tra il rosso bandiera e il rosso cardinalizio, il bolognese sfuma sull’uno o sull’altro secondo conviene. «Tutti i partigiani per il bolognese furon comunisti per cui, siccome tutti avevan portato la camicia nera, per il bolognese si trattò di rivoltare e mettere la rossa. La Resistenza è dell’italiano, ma abbiamo tradito tutti: agli americani abbiamo fatto i bochini, erano venuti a liberarci, eravamo tutti contenti, li abbiamo abbracciati. Adesso siamo ancora con loro, ma diciamo che non va bene, poi tutti vanno a mangiare il tacchino per il Memorial Day. Tutti scimmiottano gli americani e i bolognesi molto più degli altri, perché il bolognese è un uomo che non ha ideali, è un uomo che va dove il vento è più caldo e sfrutta benissimo la situazione passando, per arguto, intelligente e dotto, mentre l’unica cosa che sa fare è mangiare delle lasagne».
Inutile alzare le spalle, inutile tentare obiezione.
«Il bolognese, essendo povero dentro, ha paura delle origini e se potesse comprare un titolo nobiliare lo comprerebbe perché è uno sfigato. Infatti chi c’è del Pratello o del Borgo di San Pietro che adesso sta ancora nel Pratello e nel Borgo di San Pietro? Son tutti rioni chi i fèn la canzunàtta d’ì Vîc, vedi Quinto, che là va a sentire il ragioniere di banca. Gli chiedi: “Sei del Borgo?”. E lui: “Io no, mi piace il folk”. E invece è figlio della Peppina c la fèva i buchén, però adesso è in banca e lui rinnega di essere nato nel Pratello o nei Mirasoli, perché il bolognese è fatto così».
È una voce sopita, il cui eco ancora pervade gli intonaci nuovi sulle vecchie mura, quella che sostiene l’ingiusta ed atroce rampogna di Baccilieri.
«Il bolognese va da Zanarini a bàvver l’aperitîv c’al càssta de piò, e i pasa so mèder con la bûrsa d’la spaiṡa fa finta di non conoscerla. Al bulgnais l’è un pèz ed mérda».
Mauro era nipote del signor Enea Casagrande, cantante lirico. Non era dei Mirasoli, infatti lo portavano tutti i pomeriggi alle prove d’orchestra, gli mettevano le braghe all’inglese, specie di bermuda che lui odiava, mentre gli altri avevano i braghini corti che erano anche più comodi.
«Perché io ero nato lì e mi piaceva stare lì, ed era come il discorso di Zanna Bianca che quand al trôva i låuv al capéss d’èser a cà sô. Il CRAL al 15 di Mirasole… Faṡól al stèva in t la pôrta ed frånt a mé, ed fianc a Crudele e l’îra inamuré d la Fricci e l’andeva in lużan con tótta la bàla gròsa. Faṡól chi n’èn dscåors tótt, che ne hanno parlato tutti, mé al cgnusèva benéssum parché al m’a tôlt in brâz e i cosiddetti doc Lucchini, Marabini ecc. La bèla spåuṡa, la Ferandâza, la Colomba c’la pisèva in pî, la Tosca, l’Anita d’i can che aveva adottato Budellacci che pare fosse figlio della Ernestina, che in casa i miṡurèvan al cudghéeṅ con la matita, la madre anche di Gustén che era magro come una saracca, ma mangiava come un grande e abitavano al 15 a pianterreno, di fianco alla Mótta e a Sereno. E sopra ci stava il tassista e la madre di Chicån che vendeva gli orologi falsi in piazza e la Maria dal Miramånt ch la tajé i marón a sô maré e poi diventò pazza e rovesciava l’olio dalla finestra sui passanti e l’Ernestina e Gustén che facevano una ciucarì tremanda par una fàtta ed cudghéeṅ…».
Così la sua invettiva trascendeva le parole col timbro dolente della voce, si offriva al cielo e si spegneva nel Magnificat, come nel vespro della Beata Vergine.

Bombo

Questa è un’opera di fantasia. Nomi, personaggi, istituzioni, luoghi ed episodi sono frutto dell’immaginazione dell’autore e non sono da considerarsi reali. Qualsiasi somiglianza con fatti, scenari, organizzazioni o persone, viventi o defunte, veri o immaginari, è del tutto casuale.

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