Frammenti del Solferino e del Mirasole Grande - Elegia in sette movimenti (Sesto movimento: La Cinzia)

Frammenti del Solferino e del Mirasole Grande – Elegia in sette movimenti (Sesto movimento: La Cinzia)

Tempo di Lettura: 6 minuti

«La femmina è un enigma della natura». [Carlos Ruiz Zafón]

La settimana successiva portai di campagna, come contributo vettovaglie, un cappone, una lunga gavetta di salsiccia passita, un salame nel budello gentile, una lepre già in salamoia con le spezie, nonché uno zaino con quelle bottiglie di vino che mio padre prediligeva e che erano le eccellenze della famiglia. Si sa che dalle nostre parti il vino non viene buono. Ma nel podere di mio padre le millenarie piene del Centonara avevano portato giù e lentamente stratificato erosioni di collina per cui i sentori di un selvatico uvaggio di Montù, che secondo loro «dava la forza», di Malvasia che conferiva l’aroma e di Alionza che avrebbe dato quella punta di dolcezza cui i contadini non sapevano rinunciare, risvegliano ancora col loro lieve frizzantino i ricordi della mia giovinezza. Soprattutto nelle infanzie autunnali, incantato sotto la mole di quell’enorme tino eretto come un totem, il rito della spillatura del mosto era una festa che gli incipienti vapori alcolici rendevano entusiasmante. Nessuno oggi può figurarsi il meraviglioso trionfo che si sprigionava quando, rimosso a mazzolate la zeppa di chiusura del tino, al cucån, tosto sostituita con una spina, una grossa cànola sbusa intagliata dai canolari itineranti furlani, il mosto si precipitava nel grande mastello.
La sera ci mangiammo il cappone, con cui l’Isotta preparò anche il brodo per i tortellini della domenica, giacché consigliai di tenere la lepre a frollare. Fortuna che era già arrivato un oggetto fondamentale, orgoglio di tutte le cucine, ed era il frigorifero Ignis, annunzio dei tempi a venire.
Dopo cena venne a trovarci la Cinzia, la nipote della vicina del pianerottolo di sotto.
Bisogna sapere che all’epoca Mauro si era trasferito dal Mirasole al Solferino, di fianco alla Trattoria Trebbi, in un appartamento che gli aveva assegnato il Giovanni XXIII, come pallido riconoscimento per gli appartamenti che suo nonno cantante aveva donato alla comunità. La casa era la tipica ‘anguilla bolognese’, pomposamente denominata dai tecnici del settore ‘lotto gotico’, cioè la casa a schiera che dal Medioevo comparve un po’ in tutte città europee e che materializza la gran parte della fisionomia inconfondibile del nostro centro storico: fronte stretto sulla strada, ampia entrata in cui si faceva tutto, lungo corridoio che si affacciava sul giardino, due camere in fondo e stanzino con finestra sulle scale.

«Questo è il mio amico di Budrio», mi presentò Baccilieri alla Cinzia.

E la Cinzia mi sembrò incuriosita e aveva un modo garbato di guardarmi. Dopo Carosello andammo in camera di Mauro che aveva stipato un altro letto per ospitarmi. La Cinzia si sedette sulla sponda. Poi salì sul letto e affondò le ginocchia sul materasso cosicché la gonna curvandosi sui glutei le si adagiava un poco sulla coperta. Lei attaccò a parlare del fidanzato di una comune amica che sembrava comportarsi in modo non proprio regolare. Io un po’ pirla la seguii, cercando di fare considerazioni intelligenti e un po’ moralistiche. Lo sguardo di Mauro era imperscrutabile e sembrava non essere interessato alla conversazione. Siccome cominciava a far caldo lui si tolse la camicia e io feci altrettanto.

«Come siete belli» disse la Cinzia, che eravamo a torso nudo e coi jeans tirati.

E infatti a torso nudo e coi jeans tirati mi sentivo molto euforico. Poi la Cinzia si sedette tenendosi le ginocchia con le braccia, così la gonna le ricadeva mostrando la coppia delle cosce fino al bianco delle braghette. In realtà non avevo idea di cosa potesse sortire e ci rivoltavamo sulla coperta uno accanto all’altro come fanno le foche. Mauro faceva finta di niente e certe asimmetrie del corpo acerbo della Cinzia emergevano secondo che si rivoltava di qua oppure di là, e di sotto la maglietta due protuberanze virginali si stagliavano immobili come stelle fisse, segno che la Cinzia non indossava reggiseno, come all’epoca invece facevano tutte. C’era comunque l’Isotta che ciabattava tra il corridoio e le due stanze. Ad un certo punto la Cinzia ci salutò con un bacetto ciascuno e disse:

«Devo rientrare in casa».

Prima di metterci a dormire io e Mauro ci scambiammo alcune osservazioni sulle nostre ultime letture. Io avevo appena finito di leggere la Lolita di Nabokov e lui la Sonata a Kreutzer di Tolstoj. Eravamo convintissimi delle nostre capacità di analisi letteraria finché, alla fine delle disquisizioni, Mauro fu lapidario nel riassumere la sostanza dei nostri discorsi.

«L’é difézzil capîr la figa», concluse.

A me però prendeva male addormentarmi e stetti un pezzo con gli occhi spalancati, finché il plumbeo sonno della giovinezza non ebbe la meglio.
Il giorno dopo, come tornai da scuola, la mamma di Mauro mi accolse tutta allegra e mi disse che stava preparando la trippa. Mauro era andato a provare con gli orchestrali. Poi, manco a dirsi, lei, come mia madre, cominciò a dire «che capelli lunghi che avevo di qua», «che capelli in disordine che avevo di là».

«Perché non va giù da Crudele a farseli mettere a posto?».

E così mi feci convincere a scendere da questo Crudele, risalendo un poco il Miramonte, anche per far passare il tempo. Non si trattava che di un barbiere, mi avrebbe presumibilmente dato una spuntatina, tenendo conto della foggia della mia pettinatura.
Crudele stava sulla porta del negozio con la camicia bianca e batteva il piede per l’impazienza di lavorare.

«Caro giovane, lei è un parente della signora Isotta?».

E intanto mi aveva già imprigionato con due o tre asciugamani e cominciò a roteare le forbici come doveva atteggiarsi un grande maestro: le allontanava come a fargli prendere la rincorsa, poi le precipitava sui miei capelli che cominciarono a cadere in grandi ciocche ricoprendo gli asciugamani e cadendo sul pavimento. E ancora allontanava le forbici e prestamente le precipitava, senza che io osassi minimamente di protestare. E nel contempo, arzigogolando per aria, mi piantò la punta prima sotto il cornicione dell’orecchia sinistra, quello che i sussidiari chiamavano ‘antelice’, e poi sotto il cornicione dell’orecchio destro mentre, come se niente fosse, mi andava tamponando le gocce di sangue con un batuffolo di cotone e alcol denaturato che teneva già pronti. Quando poi gli dissi che ero nato ai Canaletti, di fronte alla trattoria famosa per le bistecche di castrato e fondata nell’anteguerra dal famoso Guido Tabellini, dimostrando stupore e meraviglia fece un passo indietro esclamando:

«Chi, mé e Tablénn?», e accostando l’indice sinistro all’indice destro proseguì.

«Chi, mé e Tablénn? A îran acsé! lò al mitèva al castrån int la gradèla e mé a cuséva al tajadèl!». «Chi, io e Tabellini? Eravamo così! Lui metteva le bistecche di castrato sulla graticola e io cuocevo le tagliatelle!».

Insomma, erano stati militari assieme addetti alla cucina e assieme ne avevan fatte di tutti i colori.
Intanto era passato alle macchinette e, ciche-ciche-ciche, andava alzandomi la sfumatura fin verso la sommità del cranio.
Oramai era fatta. Come mi sarei presentato adesso alla Vanessa della Lucciola, con quella faccia che era diventata di tre anni più giovane e di fisionomia bambinesca?
Rientrando tramortito in casa dell’Isotta e salito in trance al terzo piano, assistetti all’indicibile scena. Quel figlio di puttana di Baccilieri aveva incantonato la Cinzia sul pianerottolo e la stava spogliando, sì proprio spogliando, con sistema e deliberazione. Sembrava incredibile la docilità con cui la Cinzia assecondava lo sfilare per la testa della maglietta a righe alzando la braccia. Allibiti i miei occhi videro spuntare due seni protervi e due capezzoli lunghissimi e rinforzati alla base come la capocchia delle ghiande. Incurante del mio arrivo la Cinzia assecondò la caduta della gonna sui piedi e si lasciò abbassare le mutandine. Non sembrava neanche una donna vera tanto compatta appariva la pelle, tanto neutra e armoniosa si proponeva la giustapposizione delle curvature, come non fosse carne ma si stesse scoprendo una statua del Canova, mentre un ciuffo nero proruppe, lui sì intimidito di sotto l’inguine come non avesse voluto esserci. Uscì dalla porta in quel momento l’Isotta.

«Cosa mi tocca di vedere! Cosa mi tocca di vedere! Fila dentro subito che poi lo dico a tua madre!».

E mentre la Cinzia scappava giù per le scale, premendosi sul davanti il fagottino dei vestiti ma esponendo ahimè il di dietro adolescenziale:

«Sei proprio sempre il solito!», strillò l’Isotta rivolta a Mauro. «Guarda invece come è serio il signor Renato!». E questo complimento fu la terza mazzata della giornata.

Una volta rientrati, Baccilieri mi osservò con desolata ironia:

«Al t’à fât i cavî à la umbérta!». «Ti ha fatto i capelli alla moda umbertina!». E questa fu la quarta mazzata.

Ingollai forzatamente a cena i pezzi di trippa. Fin da piccolo rifiutavo ogni cibo molliccio, dal bianco d’uovo crudo ai pomodori crudi, fino ai cachi. Mauro mi guardò con solidale pietà che andava ben oltre il gradimento oppure no della cena:

«A té at piéṡ brîṡa la tréppa! Mé al sò».

Bombo

Questa è un’opera di fantasia. Nomi, personaggi, istituzioni, luoghi ed episodi sono frutto dell’immaginazione dell’autore e non sono da considerarsi reali. Qualsiasi somiglianza con fatti, scenari, organizzazioni o persone, viventi o defunte, veri o immaginari, è del tutto casuale.

© Riproduzione Riservata

Foto: framor.com