Il fuoco amico (o Sulla banalità delle tragedie)

Il fuoco amico (o Sulla banalità delle tragedie)

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Si legge che, anche nel corrente conflitto in Ucraina, ogni 10 morti provocati 6 siano dovuti al cosiddetto fuoco amico. I belligeranti di ciascuna parte cioè si sparerebbero tra di loro, per insipienza, confusione, incertezza della situazione. Così ho ricordato un episodio del nostro tempo di guerra la cui distanza temporale ha trasformato il senso del dramma in facezia e che, come al solito, io racconterò prendendolo alla larga.
Nello spigolo interno in capo al portico di via dell’Indipendenza, all’angolo con via dell’Orso, ci sono una serie di scalfitture dovute a vicissitudini del tempo anche se più volte riverniciate. Di una di queste però conosco l’origine. È all’altezza degli occhi dal lato di via dell’Orso e mi fu indicata dal suo autore, senza enfasi e a puro titolo di cronaca. Si tratta del segno di un proiettile di pistola Beretta M34 calibro 9 corto, così mi pare di ricordare, che il gappista partigiano Bufalo Bill, nome di copertura, aveva sparato contro il maggiore tedesco Müller delle SS, che aveva appena fatto una capatina al casino di via dell’Orso, oggi Hotel Metropolitan, e che stava svoltando a piedi per Indipendenza. Il colpo andò a vuoto e di qui la scalfittura sul cotto, rimasta indelebile e anonima e che tale resterà fino a qualche prossimo radicale restauro. Il tiratore scelto dei GAP, Gruppi Armati Partigiani, che abbiamo appena tirato in ballo, per un certo ambiente fu dunque nominato il Bufalo fino alla fine della vita, mentre per i miei amici fu sempre Lucianino, siccome era piccolo, simpatico e stizzoso. Io l’ho conosciuto che era già molto anziano, molto più della sua stessa età voglio dire: camminava col bastone, la voce arrochita da antichi vizi, pochi denti, baffi bianchi spioventi. Quale fosse il suo carattere cominciai a capirlo quando si innamorò della mia cameriera Marlene, bionda caraibica di pelle ramata, figlia di un ex generale di Fidel Castro. Alla Marlene avevano rubato la bicicletta e così lui girò per una settimana per tutto il quartiere universitario finché non riuscì a riconoscerla tra montagne di bici parcheggiate. Allora aspettò il nuovo proprietario, segnatamente il ladruncolo, e lo minacciò col bastone.

«S’ t a nun dè indrî la biziclàtta d’la Marlene at spâch la tèsta!». «Se non mi rendi la bicicletta della Marlene ti spacco la testa!».

Anche i nuovi fidanzati della Marlene dovevano stare attenti, perché Lucianino conservava in cantina la Beretta M34 e prometteva senza indugio di sparargli nelle gambe. Fu anzi attorno a questa vicenda che venni a sapere del suo modo di vivere o sopravvivere. Il vivace gruppo dei miei avventori che faceva la spola tra Cuba e Bologna aveva invitato Lucianino ad unirsi con loro per andare all’Avana e conoscere i genitori della Marlene. Immantinente, con la vendita di un quadro che si rivelò un falso, Lucianino si era pagato il biglietto di viaggio. Si mise in moto poi un ex agente di polizia che si occupava di sveltire il rilascio dei passaporti, ma nonostante l’esperienza dell’intermediario per il passaporto non ci fu verso, tante di cabriolet ne aveva combinate da intasare gli uffici notarili tra l’Italia e le sale gioco di mezza Europa: dicesi cabriolet il sempiterno assegno a vuoto…
Il fatto è che la ricollocazione di Lucianino nel mondo del Secondo dopoguerra aveva avuto inizio durante la Liberazione, quando il gruppo da lui comandato aveva scoperto nel corso di una perquisizione un baule pieno di preziosi, frutto di ruberie e requisizioni agli ebrei abbandonato dai tedeschi in fuga. Aveva fatto immediatamente irruzione sulla scena lui, Lucianino, il Bufalo, partigiano di sponda socialista che, pistola alla mano, aveva intimato:

«Fermi tutti! Questi beni vanno al Partito!».

Non ho mai potuto appurare di preciso la reale destinazione di quel ritrovamento, ma è sospetto che attorno a quel forziere si fosse dipanata la vita futura del nostro. Era poi riparato in Jugoslavia, in seguito ad altre complicazioni, presso una famiglia in cui vivevano tre sorelle. Lui aveva diciannove anni e quello fu un periodo strepitoso per Lucianino. Tre sorelle tutte sue in un paese di maschi decimati da guerra e guerriglia. Erano ragazze dal profilo atletico come non se ne vedevano da queste parti, e forme procaci rispetto al fisico esile di Lucianino, ma lui era apportatore di mezzi che «i févan dal sît», che aprivano spazi. E lo diceva sottovoce facendo cenni ieratici con le mani. Tornato in Italia si diede alla attività di mercante, diciamo di piccolo trafficante di opere d’arte, indifferentemente di quadri d’autore e di falsi con cui aveva condotto una incerta esistenza. Anche se, nei momenti più bui, l’ancora di salvezza fu sempre un ex gerarca fascista al quale Lucianino aveva risparmiato la vita in tempo di guerra. Questi era poi diventato un famoso avvocato di cui non faremo il nome e ogni qual volta serviva un testimone, ecco comparire in tribunale Luciano, finché non diventò troppo strano che lo stesso personaggio fosse sempre presente nei casi incresciosi…
Quanto a me, per tutto il periodo che mi girò per il locale, il mio compito fu di procurargli sovente i pasti e nel contempo salvarmi dai suoi tentativi di rifilarmi patacche. È incredibile come in questi maneggi si facesse coadiuvare da stuoli di ragazze, tutte regolari per altro, e non si capiva donde le facesse pullulare dal quartiere in cui gli avevano assegnato l’appartamentino comunale e in rapporto alle quali non teneva conto della mia linea di fedeltà coniugale.
Cosa c’entrano queste notiziole col tema del fuoco amico evocato all’inizio? Beh, rispettando le proporzioni vi ricordo che, nel più famoso romanzo della marineria, la balena bianca Moby Dick emerge solo ad un terzo dalla fine, dopo ottocento pagine buone di narrazione. E che Francis Scott Fitzgerald ne Il grande Gatsby imparò la lezione e il protagonista sempre evocato compare solo verso l’epilogo. Bene. Nella sua vita da partigiano, ad un certo punto il Bufalo fu destinato col suo reparto a operare tra i due fronti della linea Gotica, dalle parti di Monte Sole. Una bella sera, mentre la luna piena era alta e rischiarava le colline, Lucianino vede un movimento di truppe.

«A um tâc a la Breda e ta ta ta ta…». «Abbranco la mitragliatrice Breda e comincio a sparare…».

«T’avév da vadder, j un parévan un branc ed faravåṅni chi svulazèvan in zà e in là, da una pèrt e da cl’ètra, dsàtta e dsäura». «Dovevi vedere, mi sembravano in branco di faraone che svolazzavano spaventate da tutte le parti, chi di sopra, chi di sotto, chi di qua e chi di là».

Poi Lucianino continua:

«Îran di franzîs…». «Erano francesi».

Qui bisogna fermarsi un attimo. Siccome mi raccontava questo episodio al tempo degli scontri con la Nazionale di calcio d’oltralpe, più di vent’anni fa, all’idea che Lucianino detto il Bufalo mitragliasse Barthez e compagni con la Breda io ebbi un moto di subitanea quanto ignobile ilarità. Ma subito ritornai in me stesso:

«Ban parché Luciano t’è sparé ai franzîs, che erano nostri alleati còntr’i tudéssc?». «Ma perché Luciano hai sparato ai francesi, che erano nostri alleati contro i tedeschi?».

Lucianino mostrò sincera ancorché postuma costernazione e allargò le braccia:

«A un sån sbagliè…».

Bombo

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