Il virus COVID e lo zar PUTIN

Il virus COVID e lo zar PUTIN

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Poco prima di questa guerra, ancora in clima profondamente COVID, mi ero intrattenuto qualche volta ad analizzare la logica di tutti quei miei simpatici amici che si collocavano a vario titolo nella variegata famiglia che si poteva definire ‘no-vax’. Vorrei assicurare che non c’è nulla di ironico, nulla di polemicamente denigratorio nel mio tentativo di venire a capo di un modo di argomentare che forse, chissà, corrisponde a una logica superiore: «Né da una parte né dall’altra», salto di qua e poi salto di là. Solo che io preferisco il vecchio tertium non datur, che vuol poi dire ‘delle due l’una’. La logica no-vax mi parve consistere nel dotarsi di un apparato di obiezioni buone per essere rivoltate alla bisogna nel loro contrario e adattate così a minare di volta in volta ogni sviluppo discorsivo, proprio come un grimaldello è buono per tutte le serrature. Provo a fare un esempio di quel che ne conseguiva.
Dopo l’attenuazione della prima ondata pandemica, tra le molte critiche piovute sulle scelte governative si obiettò che, stanti le spese per allestire i reparti di terapia intensiva, adesso queste strutture giacevano inutilmente, sovrabbondanti ed abbandonate, dimostrando così che si era creata ad arte l’emergenza, per scempiaggine o magari poter speculare. Successivamente, quando le scelte del «pensiero dominante» volsero nella direzione della somministrazione universale del vaccino, motivando anche la necessità di alleggerire la pressione sugli ospedali, l’obiezione fu l’accusa di non aver predisposto per tempo le strutture sanitarie, così da poter imporre come inevitabile la vaccinazione. Argomenti l’un l’altro escludentisi, pedine da spostarsi via via sulla scacchiera della situazione e, alternativamente, ora negare la pericolosità del virus, ora ipotizzarne la preparazione dolosa nei laboratori segreti. L’obiezione al vaccino, altrimenti anche detto «siero COVID, coi suoi contenuti di grafene e il suo codice MAC rilevato dall’applicazione Bluetooth», stava così nel mezzo del sentimento «né col virus né coi virologi». Negazione del virus equivalente ad evocarlo come arma segreta, complotto internazionale ai fini del dominio sulle istanze individuali.
Se questo era l’aguzzo apparato argomentativo di tantissime persone comuni, quasi a sorpresa dovetti prendere atto anco delle prese di posizione di certi loro compagni di strada che la sapevano molto lunga, persone fortemente preparate in senso teorico. Dico di uno per tutti, il prof. Massimo Cacciari. Qui bisogna andar molto cauti: mi è sovvenuto come il filosofo della Krisis sia stato negli anni uno dei più attenti esegeti di pensatori che magari paiono qui altisonanti, nomi come Heidegger, Jünger, Schmitt. Per chi non li abbia letti niente paura, non fa niente, non stiamo a fare sproloqui. In poche parole, è interessante considerare come, al di là dell’indubbio prestigio, tutti questi qua avessero scampato a loro tempo per un pelo il tribunale di Norimberga e tutti fossero stati ballerini sullo stesso crinale: né del tutto col nazismo, ma neanche con le democrazie occidentali.
Aleggia nell’aria anche la Scuola di Francoforte e la sua Dialettica dell’illuminismo. Gran gente, sia chiaro, a me mi hanno sempre suggestionato e non sono neanche tanto complicati. Stanno a dire: «Non col Medioevo ma neanche con la modernità». Contro la superstizione ma anche contro la scienza occidentale. Ho avuto la netta impressione che qualcosa di questi anarco-critici emergesse anche alla base del pensiero del Professore nel caso in questione, e in modo subliminale in tutti i dissenzienti antiscientifici di questi tempi. Docente e discenti. Il gusto di collocarsi tra i pochi a manifestare il dissenso, indicare nella vaccinazione per tutti la vocazione al dispotismo. Educazione diffusa uguale preparazione alla dittatura. L’orgoglio di essere liberi in quanto ‘critici-critici’. Gli ultimi rimasti. Una specie di manifesto della festosità della disobbedienza civile in un’epoca di dittatura parlamentare. Asserzione che ritrovavo pari pari fin nell’ultimo rappresentante della galassia no-vax.
Se a questo punto quella che mi era sembrata una piccola scoperta (tutta libresca) mi aveva divertito, quando sono emersi i distinguo in merito alla invasione dell’Ucraina da parte di Putin sono rimasto sconcertato dall’analogia tra i meccanismi psicologici alla base del ragionamento no- vax e i meccanismi che presiedono alle argomentazioni (ammetto, non sempre capziose) dei pacifisti fondamentalisti: né con Putin né con l’Occidente. Cerco di astenermi, per quanto possibile, dal formulare giudizi, mi sforzo semplicemente di confrontare delle affermazioni, tenendo conto che nel frattempo piovono bombe e s’ingrossa il flusso dei profughi. Con l’avvento di questa guerra, lo stesso apparato logico che era tornato buono nella polemica che negava la pandemia, ora nega le ‘virulenza’ dello zar.
Fioriscono all’uopo i distinguo, «ci sono anche le responsabilità degli americani». E va bene, parliamone, ma siamo sicuri che questa sia una ragione sufficiente per dichiararsi equidistanti tra un despota asiatico e un presidente che, quantunque ‘ex comico’, ha provato a fare democrazia in un posto dove non c’era mai stata? Porta le sue obiezioni ‘tecniche’ anche uno storico a trazione integrale come Franco Cardini: «Armi chimiche? Quando sono state usate? E le prove? Ma, soprattutto, le hanno usate anche gli americani in medio oriente. Perché abbiamo protestato di meno? Atrocità? Le hanno commesse anche gli americani. Perché abbiamo protestato di meno? Afghanistan, Iraq, Siria. Quanti morti civili? Perché abbiamo protestato di meno?». Certo che i distinguo so farli anch’io, solo che mi risulta difficile farlo sotto il fuoco dei lanciarazzi Katjuša.
Questa è ancora la logica per cui, spostando il discorso dall’oggetto in questione, si evita di prenderne atto, lo si rimuove. E, con un altro passettino, lo si rovescia. Non si trasforma così l’aggredito in aggressore? Allo stesso modo che, prima, l’obiettivo si era spostato dal virus ai virologi. E se nel caso precedente il presupposto polemico stava nella diversa concezione della nozione di scienza (che fosse approssimazione scientifica? Se ne potrà pur parlare…), ora sta nella rimozione storica da parte dei più. Intendo per ‘rimozione storica’ l’assenza della dimensione del tempo nella testa delle persone. Per noi la storia va dall’ultimo viaggetto a Tenerife alla prossima vacanza ad Ibiza. Al massimo la storia comincia quando andavamo a cuccare in discoteca.
Io sono tra quelli che pensano, lo dico subito, che allorché un evento si manifesta nel mondo, non cesserà mai più di far sentire i suoi effetti e a volte tornare per molestare le notti delle generazioni successive.
Cerco di spiegarmi. Per venire a capo di quest’altra faccenda, per farsi un’idea di quello che sta accadendo o si sta ripetendo, bisogna partire da molto lontano.
C’era un popolo che 1.500 anni fa viveva sui monti Carpazi, una mezzaluna che va dalla Polonia alla Serbia. Le pianure sottostanti erano occupate dai Goti. Fuggiti i Goti al di qua del Danubio sotto l’incalzare dei cavalli di Attila ed estinto il ciclo degli Unni, si formò un vuoto al centro dell’Europa. Il popolo dei Carpazi scese, riempì quel vuoto e cominciò a spostarsi. Aveva nel sangue l’istinto alla migrazione, l’immaginazione allucinata, la poesia, la musica e la ferocia. A nord arrivarono in Polonia, a est arrivarono a Vladivostok e poi in Alaska (l’Alaska fu dei russi fino a fine Ottocento, poi se la vendettero per fame). A sud occuparono i Balcani sterminando le popolazioni ivi stanziate dall’antichità.
I veneziani se li trovarono sull’Adriatico come pirati, se ne avvalsero come rematori e li chiamarono schiavoni, s’ciàvi: diventarono ‘gli slavi’. È ancora controverso il contributo dato dai vichinghi variaghi che scendevano a commerciare con le loro navi lungo il Dnepr, alla formazione del principato di Kiev, la Rus’ di Kiev, primo nucleo statale slavo. Indi la Moscova. Russia, Ucraina, Bielorussia, sono quello che chiamiamo Russia. Prima l’ossessione di essere invasi dai cavalieri teutonici tedeschi, poi da est dai mongoli e tartari. La necessità di difendersi trasformata in paranoia della difesa e poi al contrario in delirio di espansione.
Zar, boiari e servitù della gleba. Misticismo. Monaci. Starets carismatici come Rasputin. Uccisioni, avvelenamenti e torture di massa. Sovrani che stanno coi terroristi, ribelli che giurano fedeltà allo zar, verrà il momento di rivoluzioni popolari fatte da una élite, di processi in cui gli imputati si accusano invece di discolparsi. Asia ed Europa. Comunicare all’Occidente gli elementi dell’umanità russa. Convinzione di una missione da compiersi per il mondo.
Tutto si giocava sul terreno religioso. Lo spartiacque col Cattolicesimo si manifesta ben prima dello Scisma d’Oriente che è del 1054 e si esprime nella formula che recita: «Credo nello Spirito Santo che procede dal Padre attraverso il Figlio», che ripudiava la dizione «…che procede dal Padre e dal Figlio». Sembra niente, ma vuol dire che si è saltata la Ragione quindi tutto è valido per Fede. Resta l’amore, l’abnegazione, l’obbedienza, la sofferenza, il sangue di Cristo. Bisogna credere. I russi non si chiedevano nulla: si accontentavano di credere. Il pensiero russo è profetico e l’Occidente è l’Anticristo. Inevitabilità del delitto e della violenza.
È vero che dovunque in Europa fu comminata sofferenza, ma mai nelle dimensioni apocalittiche della Russia. Siamo a Ivan IV ‘il Terribile’, nel Cinquecento. Il massacro di Novgorod, sessantamila persone, donne e bambini, torturate a morte nell’arco di cinque settimane. Poi grandi rivolte, Stenka, Razin e Pugacioff. Più tardi i decabristi. Ma è sempre dal padre zar che il popolo si aspettava la redenzione, mai dalle idee liberali che a mano a mano si proponevano in l’Europa. Lo zar impersonava le speranze di giustizia sociale.
Pietro I ‘il Grande’ sospeso tra Oriente e Occidente, russo e antioccidentale, slavofilo ed europeista. Caterina II detta ‘la Grande’ prima s’innamorò delle idee progressiste che venivano dalla Francia, poi non ne fece nulla e a sua volta represse.
Nessuno dei grandi scrittori russi fu progressista: per loro l’Europa fu sempre un’area del mondo da redimere, una civiltà corrotta da salvare con lo spirito russo. Dostoevskij era stato irridente per esempio verso la pretesa degli italiani di rendersi indipendenti e diventare più moderni. E fu così fino alla fine. La rivoluzione del 1917 fu opera di quattro o cinque persone. È così evidente il nesso popolo-zar che un sacco di storici, fosse possibile, ci scommetterebbero: se Nicola II fosse stato meno inetto e si fosse presentato il 2 marzo davanti al Palazzo d’Inverno, dopo la Rivoluzione di febbraio, in mezzo alla folla di disperati a causa della sua stessa guerra proclamando «io sono il vostro Zar», i Romanov sarebbero ancora sul trono di Russia.
Siamo a Stalin, zar sub specie comunista, la sempiterna missione salvifica da compiersi nel mondo e nella storia. Ci eravamo cascati tutti, anche il sottoscritto. Quaranta milioni di vittime? Cinque milioni di morti per fame solo in Ucraina, l’Holodomor per portargli via fino all’ultimo chicco di grano e fiaccarne la resistenza. La deportazione in Siberia dei kulaki, piccoli contadini indipendenti, nei campi di lavoro forzato. Pare che la psicologia stessa degli ucraini ne sia stata stravolta, e un solco di odio fratricida sia stato tracciato. Poi viene il 1989 e quel che segue. Gorbaciov e l’occasione mancata della socialdemocrazia? Forse. Ma gli americani scelsero Eltsin, un bandito che prometteva più business. E, se volete, la prossima volta parliamo anche di questo. Comunque sia, dopo un secolo e mezzo di sfruttamenti, nel 1991 gli ucraini scelgono l’indipendenza. Nel 2014 abbiamo la Maidan, la prospettiva della democrazia. S’instaura a questo punto nei russi, in tutti i russi che, per dirla ancora con Dostoevskij, sono come un uomo solo, il dolore del lutto, la grande madre Russia che perde i figli per strada: e questo non è sopportabile, per questo si poteva bombardare o peggio. Ma l’ammalato guarirà, come si dice ne I demoni.
Ora Io non sono qui a fare il panegirico degli ucraini come fossero viole mammole; i loro dirimpettai dell’ex impero li giudicano per esempio derzkiy, o naglie, con la g dura, che pare in italiano si traducano come ‘scriteriati’ e ‘impudenti’. Vorrà dire che son gente non sempre simpatica? Ma sì, saranno anche loro della grande famiglia slava, facili alla commozione ma anche al coltello, e i fratelli russi se ne stanno accorgendo. Ma, a parte che nel gergo bolognese quel giudizio può essere ritorto in ‘dar via del loro’, non per questo potrà esser negata agli ucraini l’autonomia della scelta indipendente e democratica. Ma come la parola ‘democrazia’ è fumo negli occhi di là della Palude Meotide, non sarà che anche qui da noi l’uso dello stesso termine comincia a suonare desueto? Così, mentre in Russia Vladimir Putin si preparava ad essere il primo zar che non solo si avvaleva della polizia segreta, ma essendo il capo della polizia segreta stessa, secondo la trama di una continuità per cui Ivan IV ‘il Terribile’ non è mai andato via, qui da noi, come è stato per il virus, un sentimento diffuso è ancora «né da una parte né dall’altra». Né con la NATO che ci copre e ci occupa, né pro né contro Putin che ci dà gli idrocarburi per andare al mare.

Bombo

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