La Cicciona del Grand Hotel (2^ parte)

La Cicciona del Grand Hotel (2^ parte)

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Da Frammenti del Solferino e del Mirasole Grande.

Seconda parte – Epilogo senza apologo

Creatura sensibile a quei che si definivano tenebrosi, ma in generale all’aura degli artisti, costei era una signora ricchissima, che abitava in solitudine una suite esclusiva su, all’ultimo piano dell’hotel.

      «Sono a posto», realizzò Mauro all’impronto.

E, divinato il tema, si diede a intrattenere la nuova conoscenza, con quella sua frase piena di vocali e la voce roca di tabagista cronico. Capite che quello era l’ambiente di Mauro, l’universo cui si sentiva chiamato sin da quando era nato. I fregi liberty, le colonne ottonate, le ali e i capitelli anticati e tutti quei camerieri in livrea che ti servivano agratis qualsiasi drink tu gli chiedessi. Anche se lui preferiva il bianco da poco prezzo di Trebbi, da sorbire lentamente, o i Baby di stravecchio da bere d’un fiato. Intanto, Budellacci e gli altri orchestrali passavano avanti e indietro per posizionare gli strumenti, la batteria, i microfoni, la pianola e tutto quanto. Col cavolo che Mauro fece un gesto per aiutarli, né tantomeno li degnò di uno sguardo.

«Vût ca n’al savéss…», ringhiava con occhiate di traverso Budellacci il batterista.

«Chi sono?», chiedeva la cicciona indicando il viavai di gente sudata che pareva ce l’avesse col suo intrattenitore.

«Non li conosco… saranno i facchini», aveva risposto svagato Mauro.

Così erano andati avanti parlando di poesia e di pittura. Siccome quello era il momento che andava Bukowski, Mauro argomentò che l’Autore non era uno sporcaccione, che il suo brutale erotismo era una protesta per la perduta infanzia, era indignazione per l’ipocrisia del mondo, era nostalgia di un amore eterno che non gli riusciva di realizzare per via del suo cattivo carattere.
Sedotta da tanta commossa elegia, che con la calma della competenza pareva elevarsi sull’aria festaiola che andava montando, ella dovette tremare dalle dita dei piedi alla punta dei capelli e, preso Mauro teneramente per la mano, lo condusse per le scale con leggiadria, producendosi anche in qualche saltello, su verso la suite, la cui porta felpata si era aperta senza alcun rumore proprio mentre dalla sala si spandevano le prime note di Romagna mia, spalancando un magnifico appartamento con terrazzo da cui si vedeva il mare. E chi ispirasse i gusti della Cicciona lo si capiva dall’incombente carrozzeria di una Bugatti agganciata al soffitto, così come dai Boldini appesi alle pareti damascate. Ma anche da un Morèndi appoggiato con noncuranza a una madia del Seicento e da un De Chirico tirato a matita e negletto su una seggiola.

«Bån», assicurava Mauro con sicura competenza, cioè autentico. Garantiva lui. Così come per tutto il resto.

Ben oltre la clemenza qui è il perdono che invoco, talché mi asterrò dal tradurre l’autentica espressione che diligentemente riporto.
In che modo la Cicciona si andasse nel frattempo agghindando, dietro al paravento a figure cinesi, risultava difficile a rendersi anche a Mauro stesso che, concentrandosi meditabondo, atrocemente mi descriveva:

«…la um paréva un ipopôtamo col babidoll».

Ma quando gli si era accoccolata accanto, sul divano di velluto e i poggiatesta leopardati, lui «an drizèva brîsa».

«Allora vado giù».

E dopo del tempo lei comincia a gridare:

«Aiuto! Aiuto! Aiuto!».

Poi si rovescia indietro con testa e braccia e annaspando con le mani butta per aria tutte le sue cose e tutto quel che c’era intorno, restando poi che pareva morta, tanto che perfino Mauro, a quanto disse, si era spaventato.
Non c’è niente da ridere e, se così capitasse, non è colpa mia.

«Såuvra la Cicciona che pareva morta, me lo ritrovo che è duro», dice Mauro. «E allora chiavo!».

Proprio così la raccontava, con l’allegria del filibustiere e lo stupore del naturalista. E dopo un certo tempo ancora lei ricomincia a gridare come ferita:

«Aiuto! Aiuto! Aiuto!».

E si rovescia con tutto il divano, e con le braccia alzate annaspa buttando all’aria in disordine il variegato contenuto del portagioie, i suoi ninnoli sui braccioli, gli amorini di bronzo sui mobiletti impero e rimane immobile che pare di nuovo morta. Ma, frammezzo agli altri oggetti, fuoriesce dalla borsetta di coccodrillo il portafoglio. E il portafoglio è aperto. E dentro c’è una mazzetta di soldi. Lesto, Mauro la intravede. E dolcemente la sfila, stringendo a forbice l’indice ed il medio e infilandola in un calzino che ancora indossava…

«Sei protestato! Sei protestato!», gli abbaiò Budellacci il batterista quando Mauro tornò disotto nella hall.

Questa cosa del protesto, a quanto ho capito, certifica l’artista che diserta lo spettacolo senza preavviso, e significa che non verrà pagato.

«‘Ntarèsa quèl a mé… mé vâg a cà!». «Interessa niente a me del protesto», pensava Mauro che si era già pagato da solo, «io me ne vado a casa».

E per apprezzare a pieno l’entusiasmo recondito di lui, al di là dell’impossibilità di entrare nella sua testa nobile e scellerata, bisogna considerare che, se anche non eravamo ai tempi che Berta filava, bensì solamente ai tempi che Mauro cantava, vi assicuro che settecentomila lire (tanto era l’importo della mazzetta) equivalevano allora a diversi stipendi. Ma proprio in quello si sente un annuncio all’altoparlante.

«Il signor Mauro Baccilieri è desiderato in direzione… Il signor Mauro Baccilieri è desiderato in direzione».

A Mauro gli si gela il sangue nelle vene, quando quattro commessi in gran tenuta lo sequestrano mentre sta uscendo e lo riaccompagnano su per le scale, tenendolo sotto le ascelle con una durezza che niente aveva a che fare con la deferenza di due ore prima. Nel mentre si formano due ali di avventori e di invitati che escono dalla sala concerto, di ospiti che si affacciano dalle stanze, e tutti osservano il mariuolo tosto acciuffato. E a mano a mano che ci si avvicina alla suite, si ode la Cicciona che grida:

«L’anello! L’anello! L’anello!».

A sentir tirare in ballo un oggetto verso il quale si sapeva innocente come un bambino, Mauro comincia a rincuorarsi, come uno che avesse ammazzato Caio ma lo cercassero per aver ammazzato Petronio, che neanche conosce, pian piano abituandosi all’idea di farla franca sui quattrini. E quando lo spingono dentro dalla Cicciona, che intanto continua a gridare «l’anello!», attraverso quelle lenti affumicate da cui sembrava non dovesse trapassare nulla, lui vede magicamente un luccichio sul pavimento tra il disordine lasciato dalle convulsioni di poco prima.

«Signori!», pronuncia Mauro Baccilieri con solenne severità. «È forse quello che indico che voi state cercando?».

L’imbarazzo generale si accompagna allo sguardo glaciale di Mauro, che percorrendo i presenti silenziosamente intendeva:

«Siamo in un Grand Hotel rinomato nel mondo o siamo piuttosto in una bettola di terza categoria dove gli artisti vengono trattati come delinquenti ed esposti al pubblico ludibrio?».

Mentre, soffermandosi sulla Cicciona, sembrava tristemente iterare un rimprovero cosmico:

«Come fuggente la passione, e come latitante la riconoscenza…».

E adesso chi rimediava allo scempio? E infatti fu un imbarazzato crocevia di mea culpa e risarcimenti: la direzione del Grand Hotel gli accordò un buono di soggiorno omaggio per quindici giorni, mentre la Cicciona gli firmò seduta stante un assegno di tre milioni.
Quanto al buono di soggiorno, Mauro lo regalò a non so chi. Mentre i soldi, metà li destinò alla sala corse di via Saffi; con l’altra metà comprò invece un diamantino purissimo per sua figlia, che allora aveva solo tre anni.
Il giorno dopo stavamo a un tavolo da Trebbi, bevendo uno scadente bianco gelato in bicchieri rigorosamente tozzi, da vecchia osteria, come piacevano a Mauro. Entrarono Brenno e Scalorbi e facemmo un giro di massino. Io ordinai alla Delfa una più clemente bottiglia di Franciacorta. Poi Mauro si fece travolgere da una generale discussione di calcio:

«Tu non ti devi lamentare!», pontificava. «Se ti danno rigore contro, vedi di fare un altro gol!».

«Bella forza per te che sei juventino», gli rinfacciavano.

Poi il tema girò tosto in politica, con tutti questi che facevano un discorso sociale, Mauro che li rampognava e con serafico ghigno ammoniva:

«Vi conosco».

A mano a mano che il grado alcolico dovette salire, io e lui ci mettemmo a questionare di chi fosse preferibile tra Byron e Shelley.
E alla fine di quando giocavano Sivori e John Charles.
È che tutti e due viaggiavamo sullo stesso pensiero… C’è qualcosa di nuovo oggi nel sole, anzi d’antico: io vivo altrove

Bombo

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