La competenza di Calisto

La competenza di Calisto

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Negli anni Settanta, per una felice circostanza libresca, ebbi la fortuna di conoscere il compianto Antonello Degli Esposti, pilota, giornalista e storico delle corse automobilistiche. Facemmo amicizia e un pomeriggio si offerse di farmi provare, su per Castiglione, la sua Balilla Torpedo d’epoca, già appartenuta al conte Girolamo Antolini Ossi, di Ravenna. Con ritrosia declinai l’invito adducendo, sì una certa imperizia meccanica da parte mia, ma soprattutto perché provai un tuffo al cuore alla vista della tonalità d’antan di quella carrozzeria amaranto coi parafanghi neri e la cappotta nera. E, dopo quarant’anni adesso vi dico perché.
Nella mia infanzia, pervasivamente trascorsa ad ascoltare i deliri di quelli della Bassa, ho racimolato un bel po’ di frasi che sarebbero celebri se solo le prendesse a mano uno davvero bravo e ne dispiegasse, per dritto e per traverso, l’origine nei giustapposti significati e il perché degli effetti tragicomici che spesso si generavano, con l’imprevisto sovrappiù che a riascoltarli oggi finirebbero per raccontare la nostra storia.
È una faccenda che riguarda, del resto, la bizzarria delle lingue e dei dialetti in generale, già intraducibili di per sé nei sensi e nei doppi sensi, complicati come in un caleidoscopio qualora si incontrino, come si dice, in un ‘crogiolo di nazionalità’.
Ora, qui siamo nella piccola patria della nostra memoria, le cose sono più semplici ma non per questo meno istruttive.
È indispensabile che vi dica, ai fini della prosecuzione del racconto, che la mia era una famiglia di immigrati veneti nel budriese. E per un’epoca in cui non esistevano i media e in cui la lingua italiana veniva abbandonata alle elementari o anche prima, già si può immaginare sin dall’inizio l’effetto divertente che i due dialetti potevano reciprocamente rimpallare e quanta materia in più si producesse allorché si andavano sommando le contaminazioni dovute, da un lato ai dileggi della maggioranza, dall’altro agli spontanei adattamenti tipici di una minoranza.
Erano i nostri slang di appena fuori San Vitale; e va ricordato che, prima che cominciasse l’immigrazione dal Sud (vedete che siamo in tempi preistorici), i nuovi arrivati in zona si succedevano sporadicamente dal ferrarese e dalla Romagna: spiritacci imprevedibili, portatori di grammatica e di senso, infaticabili inventori di acri e pur bonarie canzonature delle disgrazie altrui. E così l’effetto comico, nella fantasia di un veneto che ascolta una costruzione romagnola, ove abbia appena preso le misure al bolognese, può moltiplicarsi per tre e raggiungere effetti esilaranti.
Ad un certo punto nella cerchia delle famiglie dei ‘forestieri’ venne ad instaurarsi una frase in approssimativo romagnolo, ieratica e sibillina, che veniva pronunciata lasciandola a mezz’aria e che serviva a sancire l’avvenuta consumazione di certi processi. Per esempio se si voleva indicare che un tale, dopo tenace corteggiamento, avesse alfine ottenuto il consenso della sua bella. Oppure, per casi più prosaici, fate conto di un successo economico lungamente perseguito o un posto di rilevanza duramente o furbescamente conquistato.
Siamo finalmente alla frase che così si può trascrivere, benché sia chimera il pronunciarla:

«E frlla e frlla e frlla… clucalè d Calîsto!».

Già si nota in quel frlla che si vuol mimare qualcuno che ha la simpatica abitudine di mangiarsi le vocali: infatti frlla sta per ‘frôlla’, voce del verbo frullare ovverosia far girare vorticosamente. Poi c’è quel misteriosissimo clucalè. Intraducibile nel senso evocativo, può essere pronunciato e compreso solo da madrelingua romagnolo verso altro romagnolo. Le grammatiche lo traducono come semplice pronome personale ‘quello lì’, ma significa anche, più sottilmente, ‘quel tale lì che è un tipo sospetto’, oppure, in senso positivo, ‘quel bel tipo lì’, ‘quel tale lì che non diresti, cui non avresti dato credito’. Infine l’ultima parola, Calisto, è il nome del nostro protagonista.
Una prima traduzione perciò, potrebbe essere: «E dagli e dagli e dagli… quel Calisto c’è riuscito!». Ma l’esplicazione completa del senso, quella che più vi si avvicina, sarebbe:

«Vi annuncio e vi invito a prendere atto che quel Calisto lì ci sa fare e lo ha dimostrato».

Adesso bisogna dire che a introdurre l’uso sistematico della frase fu mio fratello maggiore di molto. Ma come è potuto saltare in mente a uno che parlava veronese in casa e bolognese della Bassa con gli amici, di adoperare una frase così densa (almeno, a me pare sia così) nel dialetto di Bagnacavallo? È che gli era accaduto di ascoltarla, quando ancora era piccolo, da colui che l’aveva pronunciata per primo in quella terza lingua che, riverberandosi nella sua lingua prima e nella sua lingua seconda in mille sfaccettature, finiva per innalzarsi a livello esemplare.
Sulla Statale per Ravenna, avanti che fosse asfaltata, tossivano tracotanti le prime automobili, mentre nelle campagne qualche proprietario sfoggiava la potenza del Landini, trattore italico che partiva ‘facendogli fuoco di sotto’ e che però, poi, non si fermava mai. Le automobili, invece, partivano a manovella e si fermavano spesso.
Siamo agli esordi della motorizzazione di massa e a Calisto Bandoni, in mezzo a quel nuovo sferragliare, deve essere nata una passione. Io, che sono il più piccolo della famiglia, l’ho conosciuto che era già anziano. Calisto era un metodico di poche o quasi nulle parole, perennemente in tuta e di fattezze tali che Tullio Altan, senza saperlo o forse in sogno, lo doveva aver preso a modello per Cipputi. Solo che Calisto non fu mai operaio perché sarebbe diventato il primo motorista dalla Quaderna alla Molinella.
Ecco infatti una mattina, o pomeriggio che fosse, un’automobile che viene da Bologna. Tramandano le memorie che fosse la Balilla Torpedo del conte Girolamo Antolini Ossi con al volante il conte in persona, che portava in testa un casco di cuoio come quello di Nuvolari. E l’automobile ha un guasto e si ferma sul ciglio della strada verso Ravenna, a trecento metri dal piccolo capanno in muratura di Calisto, ancora oggi esistente. Che fosse di sicuro la Torpedo di Antolini Ossi, io non ci ho mai creduto. Voglio solo precisare che il colore era quello amaranto coi parafanghi neri e la cappotta di tela nera, perché me lo riferì mio fratello maggiore che corse sulla strada dal campo di mio padre per assistere ad una scena che doveva avere il sapore dell’avvenimento.
Calisto è giovane ma identico a quando sarà vecchio e, munito della cassetta con chiavi e cacciaviti, nonché, pare, di una lunga barra di cambio da camion con pomello, si avvia tranquillo verso la macchina in panne. E con lui una certa corte di persone di ogni età e condizione: bisogna infatti sapere che, a quell’epoca, c’era ancora gente che non aveva niente da fare e andava in giro tutto il giorno a vedere quel che capitava. Certo, questo passa giustamente nei trattati di storia economica, sotto la voce ‘disoccupazione nelle campagne’, ma non è detto che questa sia la sola morale da cavarne. Con loro c’è anche un romagnolo, il ‘nostro’ romagnolo, di cognome Campana, che anni dopo avrei conosciuto come al vèc’ Campèn, che si diceva fosse cugino di un altro romagnolo matto e che sarebbe stato protagonista di un’emblematica morte, che forse varrebbe la pena di raccontare.
Calisto dunque solleva il cofano del motore e comincia a smarlettare silenzioso sul carburatore e sui cicchetti. Alternativamente, dopo ogni tentativo di messa a punto, si china sulla manovella (ci siamo quasi) e con due mani la fa girare vorticosamente e a lungo. Il motore dà strepitosi scoppi e restituisce gragnuole come di castagnette, mentre lo scappamento erutta fumo verdognolo e puzzolente. Calisto non demorde. Torna al motore e ricomincia a registrare la farfalla e a pulire le candele. Poi si rimette alla manovella e ricomincia a frullare e frullare. Dagli opposti cigli della strada affluiscono intanto, uno dopo l’altro, i contadini dai poderi adiacenti, e dalle case dei braccianti a pigione anziani e bambini che han visto fumana e udito clangore.
Sembra che la scena sia durata una buona mezza giornata. Alla fine, tra strazi di acceleratore, polverone di strada e tripudio degli astanti, l’automobile si avvia. Manca solo che Calisto appoggi la barra da camion sul carburatore e sul motore e all’alscåultia, la ausculti, con l’orecchio appoggiato sul pomello, ed ecco che l’illustre bolognese può ripartire. La piccola folla si scompone, chi torna ai campi e chi alla borgata e chi resta a commentare.
È qui che Campèn, nella sua lingua, informa dell’accaduto chi è arrivato in ritardo e pronuncia la frase che avrebbe sancito la competenza del primo meccanico d’automobili della Bassa:

«E frlla e frlla e frlla… clucalè d Calîsto!».

Poi chiuse la porta di un’epoca che era quel che era, senza poterne aprire nel contempo una che fosse meglio.

Renato Trestini

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Foto: fahrzeuge.dorotheum.com