La fisarmonica dell'ausiliario Taras

La fisarmonica dell’ausiliario Taras

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Mi sovviene in questi giorni un piccolo episodio del tempo di guerra, tra i tanti che mi raccontava mia madre. Da un anno era fermo il fronte sulla Linea Gotica e le formazioni tedesche, dalle immediate retrovie alla pianura, avevano occupato gli alloggi disponibili, le case coloniche e le stalle instaurando una certa guardinga convivenza con la popolazione, quando non una prossimità belligerante. Come si sa, alla Wehrmacht era aggregato un corpo di ausiliari ucraini costituito in massima parte da giovani che, per sfuggire alla guerra nel loro paese o per dissidenza verso i sovietici, avevano preferito avvicinarsi ai tedeschi che li trattavano poco meno che alla stregua di schiavi. A prescindere dal giudizio che queste scelte e questi rivolgimenti si trascinano dietro, perdurò da noi nel tempo la narrazione che questi ragazzi, per affinità contadina e per il carattere vivace e socievole, vissero rapporti di reciproca simpatia con le comunità che via via li ospitavano, li nutrivano e davano loro riparo nei fienili e nei pagliai.
Una sera primaverile del ’45 un gruppo di questi ragazzi tenne una festa nel loggiato di casa mia, quello in cui qualche anno più tardi avrei giocato io, saltando sui cumuli di masserizie agricole ivi stipate. Raccontava mia madre come la brigata che si era data convegno, suonando stranissimi strumenti nonché una fisarmonica rimediata chissà dove, si producesse in balli che comportavano complesse figure collettive e prodigiosi balzi individuali che entusiasmarono anche le mie sorelle, nate molto prima di me. Appurai più tardi che doveva trattarsi del famoso gopak, un ballo spettacolare che gli ucraini portano tuttora in giro per il mondo, mentre gli strumenti dovevano essere la bandura, un misto di cetra e di chitarra, dei corni e un complesso di flauti pastorali. Fu nella frenesia della festa e nella sensazione della fine imminente della guerra che il più giovane, mi par di ricordare si chiamasse Taras, manifestò a mia madre il suo sogno per quando si sarebbe ricongiunto alla famiglia in Ucraina. Egli aveva imparato a parlare italiano, così avrebbe potuto stupire e prendere in giro sua madre chiedendole:

«Mamma, dove essere mia fisarmonica?». «Mamma niente capire…».

E nel perdurare del sogno egli reiterava allo scontato stupore la scherzosa domanda:

«Mamma, dove essere mia fisarmonica?». «Mamma niente ancora capire…».

Intanto, infastidito da tutto quello schiamazzo, arrivò il maresciallo tedesco sbraitando:

«Raus! Raus! Raus!».

E comandò tutti gli ucraini nei loro pagliericci come animali.

Di lì a pochi giorni in effetti la guerra, che era cominciata nelle pianure polacche, che si era trasferita in Grecia, in Russia, in Africa e in tutto il mondo, che poi aveva percorso tutta l’Italia portando inopinatamente i suoi fronti sino ai domestici argini e fossi tra la Gaiana e il Quaderna, volse finalmente al termine. Fortunatamente, dalle mie parti, i tedeschi decisero di ritirarsi il giorno prima che gli alleati avanzassero, abbandonando le precarie fortificazioni e le postazioni di mitragliatrice che avevano predisposto nei fienili circostanti e fino al davanzale della finestra della stanza dove sarei nato l’anno dopo. Diversamente, gli americani avrebbero mandato un caccia a spianare tutto quanto senza tante cerimonie: la casa e quello che c’era sotto, la semenza della mia stessa generazione; e pensandoci adesso, con una boutade del poi, sarebbe sparito anche il grande caseggiato di là dalla strada, ove il glorioso Tabellini aveva fondato la sua trattoria, che negli anni ’50 avrebbe deliziato con le tagliatelle e le braciole di castrato il rinascente benessere della borghesia bolognese, quella che cominciava a poter uscire con l’automobile fuori porta.
Nove giorni impiegarono a passare rombando per la provinciale i carri di Sherman, ma il ragazzo Taras non poté fare gli scherzi alla sua mamma. Il suo destino lo avevano già segnato alla conferenza di Jalta, dove Stalin aveva preteso per iscritto dagli alleati la restituzione dei «suoi ucraini», che fece ammazzare uno per uno prima che potessero pizzicare le corde delle loro bandure e pigiare i tasti delle loro fisarmoniche.

Bombo

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