Quando fecero la 'caparêla' a Bertino

Quando fecero la ‘caparêla’ a Bertino

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Scritto nel 2005 e recuperato per Zerocinquantuno.

Non saprei dire perché, transitando a passo d’uomo su quel ponte verso Modena, in un paesaggio restituito a medievale purezza, sabato 28 febbraio, il giorno della nevicata, mi sia tornato in mente Bertino il giocatore, che invece aveva vissuto ben asserragliato entro le dodici porte di Bologna: sono sicuro che, di ricordo in ricordo, mediò un’oscura sentenza su Giuda Iscariota che dispensò il famoso prete del Lavino, già parroco presso quel fiume immobile e candido sotto di me. Il prete del Lavino è quello che prima della guerra si era presentato ai fedeli del posto annunciando:

«Come Giovanni Battista predicava ai Giudei sulle rive del Giordano, così io predico a voi, sulle rive del Lavino».

Ma io lo avevo conosciuto da ragazzo in gita, lui avanti negli anni, una domenica che, dopo la funzione, si era fermato con noi a giocare con le carte da ramino: opportunamente ma anche a malincuore, così mi era sembrato, coi fagioli e le noccioline perché, a mio parere, avrebbe giocato volentieri di soldi.
C’era anche una volta a Bologna un personaggio che si chiamava Bertino Pelagatti. Anzi, erano due: come Alberto Pelagatti era un passabile pittore e buon cartellonista di ambienti di gioco; come Bertino era un grande giocatore di biliardo e di poker.
Un pomeriggio di luci e colori che avevo fatto fughino perché una brunetta con la faccia da zingara voleva che la portassi sulla Carrera Messicana al Luna park della Montagnola, mi rivelai pilota talmente maldestro da perdere ogni stima di me stesso e conseguente entusiasmo d’iniziativa. Pieno di scorno e tristezza scesi i gradini del Pincio e finii per ritrovarmi quasi naturalmente alla sala biliardi del Bar Manzoni d’Indipendenza: fu l’occasione fortuita che mi permise di ‘esserci’ quando Bertino organizzò l’atâch al ‘Genovese’ nella sua sala dalle parti di Borgo Panigale. Intanto nelle pause di questo indecifrabile maccheggio, Mauro Baccilieri si provò più volte a consolarmi e ad ammonirmi:

«Tu credi che per fare della figa bisogna saper guidare l’automobile: an l’é brîsa vaira».

Che cosa fosse un atâch lo sapevano i giocatori abituali, e per i non addetti il termine ha esemplificazione sinistra in un film di Pupi Avati di due decenni dopo: consiste nel far credere ad un convenuto che sei suo alleato, al preciso scopo di rovinarlo con l’aiuto degli altri. Dovettero essere immaginosi quelli che nominarono chi ordiva l’inganno ‘iscariota’ mentre, se il raggirato era un amico, l’azione assumeva le sembianze del male cosmico.
Bertino era un magro col labbro di Humphrey Bogart. Quasi sempre con gli occhiali da sole, giacca e cravatta, vestiva di scuro. Ho sempre pensato osservandolo in azione che fosse vincente non tanto in quanto più bravo ma, soprattutto, perché l’avversario lo ‘sentiva’ più forte. Nei finali di partita e nelle chiusure era di una freddezza che faceva paura. Tu lo vedevi tutt’uno con biliardo e tavolino, come avresti immaginato un ballerino sulla pista o un centromediano palla al piede. Lorca avrebbe detto: come un torero nell’arena.
Allora Bertino scelse Sonno il Regolare ma, alla fine, anche Carletto ‘Braccio d’oro’, perché non ne aveva trovato uno di meglio in giro. E mentre sulla natura guascona di quest’ultimo penso che scriverò qualcosa in altra occasione, riferisco come Baccilieri mi diceva davanti ad un bicchiere di bianco, rigorosamente largo e tozzo, che uno che si busca lo stipendio giocando non è propriamente un giocatore, bensì un professionista: uno cioè che non trova appagamento nelle trame del gioco, né gli interessa dimostrarsi più bravo. Lui deve vincere e basta. E il suo è un lavoro tremendo. Carletto, però, era un professionista di boccette e non di poker, e la sua presenza in quell’occasione addirittura anomala perché i conoscitori del gioco, prima di tutti Baccilieri, mi dicevano che, di solito, chi gioca fuori casa accetta le regole. Capitò il contrario perché ‘il Genovese’ non era riuscito a chiudere il tavolo: quindi Bertino ebbe l’opportunità di proporre:

«Porto io un morbido», un quercén, da spennare.

Questo doveva essere Carletto, su cui da quel momento gravava il compito di sostenere una pesante simulazione. Fu perciò nei confronti di quest’ultimo che Bertino, nel dare le istruzioni di massima, prestò attenzione a risultare particolarmente chiaro e perentorio:

«S’at dâg un chèlz da såtta la tèvla, té va vî!! Va vî!!». «Se ti do un calcio da sotto il tavolo, mi raccomando, tu esci dal gioco, quali che siano le carte!».

Ma nel giorno fatidico così si applicò l’insegnamento: in pieno attacco sotto la lampada bassa, Bertino ad un certo punto trovò opportuno dare il calcio convenuto, ma senza sortire alcun effetto su Carletto, assorto nella sua giocata. Allora mollò un secondo calcio. Niente. Dopo sette calci Carletto Braccio d’oro alzò la testa e sbottò:

«Bàin sa fêt, chèlzet?». «Che cosa fai, scalci?».

Sciagurata risposta che consegnò ad una notturna Bologna la leggenda di Braccio d’oro inguaribile e maldestro giocatore, mentre al ‘Genovese’ rivelava la dura realtà di trovarsi sotto attacco di tre coalizzati. E contro tre non si può vincere. Assicurano le cronache, tuttavia, che ‘il Genovese’ non mosse ciglio: giocò fino alla fine, perse e pagò regolarmente.
Ma quando al mattino stavano già sulla via del ritorno, fuorusciti da un locale che qualche anno dopo sarebbe stato sepolto dal passaggio della tangenziale, trovarono una copiosa coltre di neve, quella che oggi ha innescato il mio ricordo, mentre qualcuno intabarrò in una coperta i nostri tre compari e, lasciandoli del tutto alla cieca, li bastonò senza misericordia.
Questa pratica si chiamava fare la caparèla ma non era viltà, bensì certificazione che la sentenza era impersonale e applicata da una comunità.
Il danaro però non fu toccato.
Erano proprio gente fatta così, con regole che soltanto loro sapevano. E congetturando se quel Nume profano dei tempi della mia zingarella fosse stato disposto ad azioni veramente nefande, ho convenuto che Bertino, capace di tutto ciò che fosse regolare nell’irregolarità, mai sarebbe stato un ‘iscariota’ come Ugo Bondi-Gianni Cavina di Regalo di Natale.

«A prescindere che l’Iscariota – ci aveva assicurato sottovoce, quella domenica lontana il prete del Lavino – non fu il peggiore degli apostoli perché, dopo aver tradito il Maestro, era andato ad impiccarsi; mentre Pirån, prime che il gallo cantasse, lo aveva rinnegato tre volte».

Bombo

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