Una generazione alla frutta (Eredità senza beneficio d'inventario) - Primo capitolo: Laggiù soffia!

Una generazione alla frutta (Eredità senza beneficio d’inventario) – Primo capitolo: Laggiù soffia!

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Primo capitolo: Laggiù soffia! (Come il respiro della balena mutò il battito del mio cuore)

Durante un inverno di scuola elementare in cui mi ammalai a lungo di bronchite, un compagno di classe che mi portava i compiti a casa si premurò di prestarmi tutta la sua biblioteca costituita da alcuni libri ponderosi dalle pagine consunte e dalla copertina foderata più volte. Si trattava di romanzi russi sulla Rivoluzione sovietica e resoconti della battaglia di Stalingrado. Uno però era americano e si intitolava Moby Dick. Bisogna sapere che il mio amico era figlio di braccianti che avevano partecipato alle lotte nelle campagne, frequentavano attivamente le riunioni di cellula organizzate dal Partito Comunista e leggevano le edizioni de L’Unità domenicale che appunto veniva distribuita la domenica casa per casa, così come nelle parrocchie si distribuiva Famiglia Cristiana.
L’organo del Partito Comunista di allora, oltre che dare quotidianamente la linea politica ai funzionari, così come imparai più tardi, conteneva nelle pagine interne articoli di serissimo stampo scientifico e dibattute recensioni letterarie. Per i ragazzi usciva il settimanale a fumetti Pioniere, e su quelle pagine nuove e diverse spopolavano il cane Pif, Chiodino e il nativo americano Aquila Bianca. Aquila Bianca era il contraltare dell’indiano cattivo dei western hollywoodiani. Il mio amico me ne aveva stipato la camera sotto le travi e io leggevo avidamente sotto l’infaticabile lavorio dei tarli. Anche lui era un pioniere, un pioniere delle idee socialiste.
Io ero figlio di contadini cattolici naturalmente democristiani e nel fervore messianico di questi miei compaesani dovevo essere recuperato alla coscienza di classe. Certo in quegli anni l’ostilità politica delle appartenenze contrapposte era palpabile persino nei rapporti di vicinato e si trascinavano dietro anche vere e proprie pulsioni omicide maturate in seno alla Resistenza, altrimenti chiamata ‘guerra civile’. Ci volle del tempo perché certi sospetti fossero dissipati al punto che, detto tra noi, ne sentiamo pesantemente gli effetti ancor oggi. Alla fine bisogna ammettere che fu immensa l’opera di alfabetizzazione e divulgazione di queste organizzazioni che nel loro massimo dispiegamento durarono poco, giusto il tempo che le più dure lotte sul lavoro, terminata la fase di Ricostruzione, avvertissero i primi robusti vagiti del consumismo e finissero per confluire nell’ancora più faticoso andamento della competizione sociale, senza che stiamo a evocare il perverso principio dell’ognuno per sé e Dio per tutti. A mano a mano anche lo slancio di cambiamento andò a farsi benedire, e dove siano finiti i sogni di quegli anni Dio solo lo sa. Anche quel mio amico, e per indubbi suoi meriti, diventò poi un importante dirigente commerciale dell’industria nascente.
Se non passò indenne quella prima scoperta della Rivoluzione, come si palesò di lì ad un decennio nel corso dei movimenti studenteschi che avrebbero cambiato il mondo, o che seguirono essi stessi l’onda di un mondo cambiato, devo però subito dire che l’impatto emotivo del Moby Dick fu un’altra cosa e scavò in un’altra direzione. Come e perché quell’immenso romanzo di marineria fosse capitato in casa del mio amico, figlio di braccianti che potevano avere ben altri problemi, potei capirlo un poco più tardi. Il fatto è che la traduzione dall’inglese era di un certo Cesare Pavese. Pavese, nelle sue Langhe, aveva fatto sì il partigiano per finta, ma poi era diventato amico del suo futuro biografo che si chiamava Davide Lajolo, dirigente comunista. Per molti anni ancora il comandante partigiano Lajolo, narratore e poeta, avrebbe fatto il corsivista de L’Unità. Col nome di battaglia resistenziale firmava quasi quotidianamente i corsivi di Ulisse, e i vecchi compagni fino alla fine avrebbero detto, testuale: «Se lo dice Ulisse allora vuol dire che è vero!».
Ma io queste cose non le sapevo, né ero a conoscenza di una realtà ancora più singolare. Che se Moby Dick, il romanzo, comprendeva 600 pagine e 135 capitoli, a fianco esistevano intere biblioteche zeppe di volumi i cui autori si erano scervellati a interpretare i reconditi significati di questa ossessionante caccia alla balena. Non starò certo a riassumerne il contenuto, anche se negli anni la tentazione di farne una mappatura completa ce l’ho avuta.
Quello che mi interessa far capire è che in quel momento s’impose alla mia immaginazione una violenta avversione verso il capitano Achab e che l’affondamento della baleniera Pequod ad opera della reazione del capodoglio fu da me intesa come la giusta punizione per l’indebita ingerenza inscenata entro le forze libere della natura. Avevo insomma preso spontaneamente le parti della balena. Perché il tremebondo ufficiale Starbuck, l’unico della ciurma a comprendere il rischio e l’enormità di quello che si andava perpetrando non aveva ucciso il capitano pazzo finché si era in tempo? E da dove traeva origine la forza proterva di costui, tale che nessuno sapeva umanamente contrastarne la volontà? Perché questo accanimento contro il bianco cetaceo? Così io ragionavo.
Forse la civiltà contadina, patriarcale e spietata, erede della caccia ad oltranza e vorace di territorio, stava partorendo qualche figlio di nuovo tipo. Ed ecco che io bambino, davanti all’assalto senza rimedio che via via andava distruggendo ciò che era rimasto di incantato nel mondo della mia infanzia ero solo, stralunato e senza difese.
Ricordo che fu un gennaio di grandi nevicate, come ne ricorrevano di simili solo una volta. Ti alzavi la mattina che la coltre impalpabile si stendeva come un sipario dal displuvio dei tetti fino alla distesa sterminata dei campi. Seguiva un giorno di solerte divertimento ad aprire camminamenti ed ammonticchiare sulle aie enormi cumuli vaporosi come nuvole cadute sulla terra. Noi ci aprivamo dentro gallerie con pale e badili e ci costruivamo anfratti e cattedrali complete di colonnati che si disfacevano solo a primavera incipiente. I tralicci metallici che correvano per la pianura e ci sovrastavano erano gravati per settimane dal peso del ghiaccio condensato sui fili. Gli scriccioli e i pettirossi ci svolazzavano intorno in cerca di cibo.

Continua…

Bombo

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