Una generazione alla frutta (Eredità senza beneficio d'inventario) - Terzo capitolo: Rimini

Una generazione alla frutta (Eredità senza beneficio d’inventario) – Terzo capitolo: Rimini

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Terzo capitolo: Rimini

Dicevo che io non potei capire subito cosa significasse la comparsa dei Beatles e che non mi furono subito simpatici i quattro capelloni. Non percepii l’originalità della leggerezza musicale. Mi parvero vacui i contenuti, ridicole le messe in scena e le passeggiate che divennero iconiche. Forse perché, da contadino, vivevo una sfera ancestrale, fatta della pesantezza della zolla e della concretezza del frutto, separata ancora da quel processo che con termine grezzo avrebbero definito proletarizzazione mondiale. O forse, perché ero lento di mio.
È ben vero che da contadino vivevi due mondi, quello medievale quando ci stavi dentro e quello moderno quando uscivi fuori; e poteva dipendere da quanto eri vispo e flessibile saltare più o meno naturale da una realtà all’altra. Ancora non troppi anni prima, quando un temporale più violento del solito mandava gli scrosci a martellare le foglie degli alberi e la grandine minacciava i raccolti, io assistevo trepidante mia madre che metteva un ramo d’ulivo sulla pertica e accendendolo lo alzava al cielo spingendolo fuori dalle finestre a propiziarsi l’assistenza divina.
È probabilissimo che nello stesso momento uno come Silvio Berlusconi si stesse riparando sotto la tettoia di un locale di Rimini lambito dalle propaggini dello stesso temporale. Non che questo significhi alcunché in qualsivoglia filosofia; né sembrerebbe avere un significato che al tavolo accanto al nostro giovane Silvio, impegnato a progettare come fare il grano in un modo furbo, sedesse qualche notabile più serio sussiego o anche il mio vicino di casa Libero Liberti, bracciante divenuto maestro muratore e poi meccanico montatore che in quegli stessi anni aveva già scoperto il mare. Intendo far capire quanto in quel momento di fibrillazione economica e opportunità egualitaria, classi e civiltà giustapposte poterono cominciare a frequentarsi nel quotidiano e ragionare con le stesse categorie mentali.
Qualche anno prima che arrivassero i Beatles, ecco che il mio amico Libero liberti, più grande di me, sta viaggiando verso Rimini. Egli è stato bracciante, adesso è mastro muratore ed è in forza alla grande Impresa Frabboni, quella che con grandi sfondamenti e cantieri sta ricostruendo i palazzoni di via Marconi e che sta svisando Bologna. Ma questo lui non sa e non gli compete. Da qualche tempo il sindacato gli ha fatto avere i libretti e percepisce uno stipendio regolare, non era mai successo dal tempo dei suoi avi, dispersi e sconosciuti. Oggi è domenica e andiamo a divertirci. Sono in quattro in macchina, una Appia comprata usata. La conduce il più benestante, che ha messo su una prospera impresa artigianale. Gli è accanto il figlio Francesco, ancora un ragazzo, futuro narratore orale di tante storie nei bar. Poi c’è il fratello maggiore di quel mio compagno di classe che mi prestava i libri. I quattro discutono animatamente di calcio perché è stata appena rubata la finale mondiale alla grande Ungheria di Puskas e Hidegkuti.
Ma intanto cominciano a sentire l’odore del mare. È una sensazione che sconcerta chi arriva dall’entroterra, come a distaccarlo dai suoi giorni e dalla sua vita. Una sensazione che infonde ignoto desiderio nel campagnolo della mia Bassa, ottunde l’udito al cittadino delle strepitanti periferie. Come ala materna li prende e li consegna a lontanissimi cieli.
Sono venuti a Rimini per mangiare al pass. Adesso sono entrati al ristorante e l’allegria si alza, mentre si dispongono attorno al tavolo e tra il vocio della sala dolcemente si spande il sentore di sedano e cipolla.
Fuori della veranda e oltre la spiaggia, lunghissima e placida si frange l’onda.
Andarono a cappelletti e strozzapreti? A cozze che erano allora una rarità pregiatissima? Oppure a domestica anguilla delle nostre valli? Io non lo so.
Il punto è che il servizio fu lento. Francesco Stagni, allora già un ragazzo che se la rideva, dopo anni e anni ancora raccontava. L’attenzione dei camerieri è catturata da un tavolo importante, c’è infatti in sala nientemeno che un presidente di Corte d’Appello con famiglia. Siamo in un’epoca di mezzo. Ancora si pensa che il soldo sia legato alle tasche di talune categorie di persone, vedi nel caso lo stipendio di pochi funzionari pubblici. O forse conta il nome delle persone in sé. I camerieri a caccia di mance oppure supini al prestigio sociale degli avventori sono tutti attorno alla famiglia del presidente. «Eccellenza» di qua, «Eccellenza» di là. Del tavolo dei nostri amici nessuno si occupa se non dopo ripetute sollecitazioni. Libero Liberti comincia a sbuffare, lui paga come chiunque altro, lui ha diritto ad un servizio paritetico. Dopo ritardi e richiami e ancora lungaggini, tra i salamelecchi «Eccellenza» di qua, «Eccellenza» di là, sono al fine arrivati alla frutta, come la generazione dei miei titoletti. Ma i camerieri si attardano ancora tutti attorno al tavolo del presidente.
A questo punto Libero si alza e protesta ad alta voce:

«Eccellenza la madòna! Pórta qué la verdûra!».

Io so che il mare, in quel momento, si sollevò tre volte e poi si richiuse. Si era verificata ed era finita una rivoluzione. Si aspettava la prossima.

Continua…

Bombo

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