Un tiro, un gol. I 90 anni di Gino Pivatelli

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Negli anni Cinquanta il calcio italiano somigliava già molto a quello attuale: tutto ciò che parlava con accento straniero era il benvenuto. A folate continue innamoramenti più o meno passeggeri portavano i presidenti della Serie A a influenzarsi reciprocamente puntando sui cavalli del momento. L’Italia perdeva 6-1 dalla Jugoslavia? Tutti puntavano sugli jugoslavi. La Juventus pescava dal nascente mercato danese? La Danimarca diventava il nuovo eldorado. Così, tra exploit inaspettati e clamorosi fallimenti, prendeva vita un mercato assatanato e poco razionale, che poggiava perlopiù sulle relazioni dirette tra i presidenti e i loro ex calciatori. Video e intermediari, del resto, non avevano ancora un ruolo.
È in questo clima esterofilo che un italiano di nome Gino, Gino Pivatelli, si presentò a Bologna nel 1953. Aveva vent’anni compiuti da poco. La carta d’identità lo dà nativo di Sanguinetto, quattromila anime sistemate quaranta chilometri a sud di Verona, così chiamato forse per le sanguinose battaglie di quel lembo di terra strategicamente decisivo dai tempi di Odoacre fino al generale Radetzky. Figlio unico di ortolani, non ricchi, ma nemmeno indigenti, Pivatelli ebbe un’infanzia tutto sommato felice: «I miei genitori vivevano per me e ho anche vissuto con degli zii che forse erano attaccati a me ancor più dei genitori. Ero il coccolo di casa», raccontò una volta.
Alla fine degli anni Quaranta ‘Piva’ mosse i primi passi da calciatore dilettante: la prima squadra in cui trovò spazio era stato il Cerea, piccola ma tenace formazione del paesino omonimo con una storia sportiva antica, risalente al 1912; Gino copriva in bicicletta i cinque chilometri che separavano casa sua dal campo di gioco, su una statale che corre parallela a nord del Po, a due passi da tutto, dall’Emilia-Romagna e dalla Lombardia, le due regioni del destino del futuro attaccante. Scortato da tre quattro amici fidati (tutti muniti di due ruote, condizione indispensabile per arrivare a Cerea con qualche energia da spendere ancora sul campo) Pivatelli aveva preso l’abitudine a questa vita un po’ vagabonda, colma di speranze. Qualche segugio del posto lo segnalò all’Inter, ma fu il Verona a prenderlo nonostante una corporatura esilina, all’epoca.
Solo a diciassette anni, nel 1950, la natura si ricordò di finire il suo compito e alzò Pivatelli di dieci centimetri, tutti in un colpo solo. Il debutto arrivò in Serie B nel ruolo di mezzala. L’altra era Ugo Pozzan, il cervello di quella squadra. «Quando aveva la palla lui, io andavo e sapevo che sarebbe arrivata. Per me era un fratello», di calcio e quasi di sangue, spiegava Pivatelli, che con il suo calciatore gemello, veronese pure lui, avrebbe condiviso cinque anni anche a Bologna. «Un ragazzo splendido», sottolineava, e sfortunato. Pozzan morì di leucemia nel 1973, a soli 44 anni, mentre allenava il Pisa. Venticinque gol in 68 partite certificarono che, per Pivatelli, Verona era già diventata una piazza troppo stretta. L’età era dalla sua parte, ma il ruolo non era ancora quello giusto. Fu il Bologna a trasformarlo in un vero attaccante. Un centravanti.
Fino all’arrivo in rossoblù, Pivatelli aveva visto giocare in quel ruolo Caldana, detto il ‘Nordahl del Garda’ e Sega, il miglior marcatore del Verona di tutti i tempi. Fu il mitico Gipo Viani, il burbero allenatore del BFC, a mandare subito in rete Pivatelli alla prima di campionato il 13 settembre 1953. Ma sarà Aldo Campatelli ad affinarne le doti di centravanti puro. Nella stagione ‪1955/56, già con due annate da 11 e 17 gol, Pivatelli conquistò il titolo di capocannoniere con 29 reti, un bottino fuori dall’ordinario, e non solo perché il Bologna era ancora penultimo alla fine del girone d’andata, ma perché Pivatelli fu l’unico italiano a vincere il titolo in una decade dominata dagli stranieri (su tutti Nordahl, Hansen, Charles, Sivori e Angelillo). Nessun altro italiano, negli anni Cinquanta, riuscirà a vincere la classifica marcatori. Pivatelli non farà mai il bis, ma fino al 1960 (quando, a sorpresa, passò dal Bologna al Napoli) manterrà sempre la doppia cifra. Qualche anno di permanenza in più e Pivatelli forse avrebbe potuto mettere la firma sullo scudetto del 1964.
Lasciare all’improvviso la squadra e la città per cercare fortuna a Napoli non fu un’idea sua ma di Achille Lauro, l’armatore-patron ansioso di sostituire Luis Vinicio con la punta rossoblù. Lo scambio alla fine giovò solo al Bologna. Vinicio sommò due buone stagioni mentre Pivatelli, con appena 3 gol in 18 partite, era diventato l’ombra di sé stesso. A riscattarlo fu il Milan di Nereo Rocco, dove si riciclò addirittura come difensore e mediano. Il suo compito a quel punto era di far segnare i compagni Altafini e Barison. Da gregario di lusso, vinse finalmente i primi trofei della carriera: lo scudetto nel 1962 e la Coppa dei Campioni del 1963, canto del cigno di un percorso lontano dai riflettori. Su questi trionfi il giornalista del Guardian Jonathan Wilson ha costruito una tesi affascinante, che sposa tattica e storia. L’idea di fondo è che Gino Pivatelli, pur nel suo ruolo di riserva, abbia cambiato per sempre il destino del Milan e del calcio italiano. Tesi singolare, trattandosi del quarto bomber di sempre del Bologna (105 gol dietro Schiavio, Reguzzoni e Pascutti).
Tutto partirebbe da un fallo tattico di Pivatelli nella finale di Coppa dei Campioni del 1963. Il Milan sfidava il Benfica ‘maledetto’ da Bela Guttmann, il tecnico che l’anno prima aveva divorziato dai portoghesi annunciando che non avrebbero mai più vinto quel torneo. Cosa realmente accaduta. Pivatelli, com’era ormai abitudine, non fu mandato in campo per segnare, ma con lo scopo preciso di fermare il regista Coluna. Un atteggiamento catenacciaro che avrebbe fatto scuola. La sua missione fu così ben interpretata che il portoghese stramazzò al suolo lanciato a rete, rimendiando persino la rottura di un osso del piede. Dopo quel fallaccio, non sanzionato, il Milan trovò il gol del 2-1 e vinse la Coppa. «Nereo Rocco – scrive Wilson – ha giocato col catenaccio ed è stata questa mentalità che lo ha portato a scegliere il trentenne Pivatelli anziché Paolo Barison, che aveva segnato sei gol nella sua corsa verso la finale. Il lavoro di Pivatelli è stato quello di segare il regista Mário Coluna».
Battere lo squadrone di Eusebio fu l’ultima gioia della carriera di Pivatelli, additato come simbolo della fine dell’età dell’innocenza del calcio italiano, votato da lì in avanti al pragmatismo difensivo, come avrebbe insegnato l’Inter, campione d’Europa l’anno successivo. Il paradosso di certo suggestiona le menti più fantasiose. Ma un’altra coincidenza ha segnato la carriera del Pivatelli allenatore, indicandolo come responsabile inconsapevole di una seconda rivoluzione calcistica. Nel ‪1964/65‬, da tecnico del Baracca Lugo, l’ex centravanti bocciò un terzino diciottenne, ritenuto non all’altezza del ruolo: quel terzino era Arrigo Sacchi. «È in quel momento – avrebbe raccontato il futuro commissario tecnico azzurro – che cominciai a pensare di diventare allenatore». Pivatelli non lo sapeva, ma anche in quel caso stava scrivendo la storia del Milan e del calcio italiano.
Oggi, 27 marzo 2023, Gino compie novant’anni e con questo traguardo diventa il più longevo attaccante rossoblù di sempre. Gli facciamo tanti auguri, sperando di incontrarlo di persona dalle parti di via Marconi, dove vive da tempo, da bolognese adottivo.

Luca Baccolini

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Foto: Gino Pivatelli