L'ultimo campo di canapa (1^ parte)

L’ultimo campo di canapa (1^ parte)

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Prima di questa guerra e scemato il corso della pandemia, il nostro parlamento si accingeva, tra le altre sue faccende, a discutere la liberalizzazione del consumo di cannabis. Mi sovvenne allora un accadimento personale del tempo in cui la canapa si coltivava a distesa sulle pianure bolognesi.

L’ULTIMO CAMPO DI CANAPA

Racconto in due parti di una colossale fumata e di una tragedia calcistica

Prima parte – L’ultimo campo

Cruciale, starei per dire, con l’enfasi che ogni tanto inopinata mi prende, non è tanto avere visto i canvèr folti dei fusti verdeggianti di canapa, cupi e compatti come selve, alti più di due persone, nell’intrico di foglie lanceolate, onde nell’acre profumo qualcuno sovente per indotta bramosia ci s’intanava con qualcuna, né aver visto i masnaduri schiumanti raganella ribollire sotto la canicola estiva. Canvèr, canepaio, è la colmata della centuriazione romana che da trecento anni veniva coltivata a canapa, e masnadûr era lo stagno in cui i canevazzi venivano macerati e poi maciullati.
Ma di questo m’importa più niente e non ne volevo neanche parlare. Chi vuole saperne di più ci si arrangi. Come per chi ha vissuto epoche di imperatori, significativo è aver visto l’ultimo, per chi visse le praterie atroce è aver visto l’ultimo bisonte, o per Laurence d’Arabia esaltante fu vedere l’ultima carica della legione araba, per chi visse coi coltivatori di canapa indimenticabile è aver visto l’ultima piantagione. Questo, tanto per dire che c’è sempre un momento in cui ti accorgi di quello che il tempo preparava per te. Mentre la sabbia nella clessidra fila giù silenziosa, tu puoi non accorgerti neanche di te stesso, ma nel punto che la clessidra la devi rovesciare, quella è una tacca del tempo che passa.
Allo stesso modo, m’importa niente raccontarvi tutto quello che con la canapa ci potevi fare, né la fatica plumbea che da notte fonda al tramonto pesò sui nostri padri che nelle coltivazioni industriali ci dovettero lavorare. Da tempi immemorabili con la canapa gli uomini ci hanno fatto di tutto. Con la canapa facevi il cordame e le vele delle navi. Con la canapa facevi abiti freschi e lenzuola ruvide che ancor oggi è delizioso dormirci. Tale era risparmiosa oltreché esorbitante la pianta, che non impoveriva neanche il terreno in cui annualmente cresceva.
Certe pasionarie che mi sono care e che hanno studiato, mi assicurano che ancor oggi con la canapa potresti farci anche case e addirittura interi palazzi e quartieri indifferenti ai terremoti, soluzione al cosiddetto ‘cemento depotenziato’, buoni inoltre per essere isolanti e traspiranti, nonché medicamenti più efficaci e rispettosi di tanta altra farmacopea, e ricette di gustosissimi manicaretti. E che a suo tempo ci avresti potuto addirittura sovvertire la storia dei motori e degli idrocarburi. Ma io questo, sinceramente, non lo so di preciso, e se ti andasse a te di indagare più a fondo come negli anni venti del Novecento i signori del petrolio, quelli del nylon e quelli della Bayer che avevano inventato l’aspirina e anche l’eroina e anche lo Zyclon B, si fossero mutualmente coalizzati imponendo la proibizione delle coltivazioni di canapa, l’onere di questa indagine, ancorché inutile, sarebbe tutto tuo.
Ma non è questo quello che precisamente intendevo raccontarvi. E solo per un attimo, poi la faccio finita, soffermandomi a seguire il sogno sfocato di una processione di donne vedo me bambino, come potrebbe essere di ciascuno di noi, deposto all’ombra della pergola mentre le nostre madri ebbero spezzata la leggiadria dell’incedere battendo la canapa sotto il sole cocente d’agosto. Sale così dalla terra indifferente il racconto di come i contadini avessero scoperto apparire la forma allegra dei sementoni. Erano questi i fiori delle piante femminili cresciuti per sbaglio tra i fusti da fibra e che fiorivano d’estate, nel loro calice membranoso avvolgente l’ovario supero con gli stili e gli stimmi, come ti dicevano nei libri di scuola, mentre comparivano i semi carnosi e i cristalli di resina. Ed erano il dono che la canapa elargiva dopo il lavoro immane, onde le brigate di operai tutti quanti ci potevano finalmente fumando ballare, all’estivo gracidare delle rane, in effluvi di giacinto notturno e mirra.
Basta dunque parlare di quello che sappiamo tutti. La verità è sempre quella che infiltra i discorsi.
Quel poco che m’importa di raccontare è come, inconsapevole benché fossi già grande, mi occupai della destinazione finale dell’ultima piantagione.
Si trattava in effetti di un appezzamento di piante femminili, di quelle destinate nientemeno che alla selezione delle sementi, così attraenti che anche tutti gli uccellini del creato ci si impazzivano rabbiosi, in un turbinio strepitoso e litigante di robusti verdoni e variopinti cardellini e dispettose cutrettole per la disperazione impotente dei coltivatori. Scoccava evidentemente l’ultimo anno di produzione e non c’erano più compratori. Affastellati al margine di un appezzamento e abbandonati in una enorme catasta sotto il sole estivo, a fine settembre i covoni di canapa femmina recisi giacevano riarsi e abbrustoliti come biscotti.
«Bisogna portarli via – disse mio fratello maggiore –, pensaci tu». E ciò accadeva il giorno di Bologna-Anderlecht al Comunale.

Bombo

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