Silverio Sinistrato in viaggio verso Brema - Favola notturna (2^ parte)

Silverio Sinistrato in viaggio verso Brema – Favola notturna (2^ parte)

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«Adesso faccio fagotto – diceva Silverio –, vediamo se mi passano i pensieri».

Perché proprio Brema non si sa o, per essere più precisi, in quel momento lui non si pose la domanda. Silverio prese lo zainetto, ci mise dentro un po’ di biancheria consunta, una giacca a vento, e uscì di casa.
Lo zainetto era leggero di contenuto, quanto pesante del cruccio che si portava dietro. La città era deserta, e sentendo i propri passi rimbombare sotto i portici, Silverio continuava a pensare:

«Chissà quante volte sono passato su questo piancito. Tante quante non ci saprei mai fare il conto di preciso. Adesso vado verso stazione, vediamo se trovo un treno per Brema».

Infatti era in treno che voleva viaggiare. E trovò il treno e trovò il binario, nella vuota stazione notturna, che odorava di ferro e di brioche. Ma non andò verso la carrozza passeggeri, bensì cercò il vagone postale, sbirciando se c’era in servizio il suo amico impiegato, che lo ospitava sessant’anni prima, quando non aveva voglia di vendere le bibite ai viaggiatori tedeschi lungo gli scompartimenti del Rapido Brennerpass: «Aranciata! Birra! Caffè! Panini!».

«Marisaldi! Marisaldi!», gridò facendo imbuto con le mani.

«Salta su che non c’è il capufficio!», rispose contento l’impiegato che comparve sulla luce del portellone appoggiandosi allo stipite.

Allora Silverio saltò su d’un balzo come quando aveva vent’anni, poi sedette su uno scatolone di lettere, ascoltando il treno che a strappi improvvisi e lunghi cigolii si apprestava a ripartire. E bisogna sapere che, all’uscita della stazione, la linea passa sulle contrade in cui Silverio era nato.
Era notte – ti dicevo –, era notte nel mio sogno così come nel vagone di Silverio, e siccome era estate lasciarono il portellone aperto sulla profondità del buio e l’intermittenza dell’orizzonte. Il sibilo sulle rotaie e il caracollare degli scartamenti cominciò ad avvicinare Silverio allo stato di esaltazione di tanti anni prima, quando sullo stesso tragitto guardava fuggire, vasta come l’universo, la campagna della sua infanzia e la sua passata e futura vita mentre, gigante onnipotente, le dominava dal treno come in volo.
Tùn tutùn tùn, tùn tutùn tùn faceva il treno. E, come roteando, cominciarono a passare i canali e le colmate, i filari di pioppi e i broli, le marrane infossate e i maceri melmosi, e gli spaventosi tralicci come enigmi, assieme ai fienili e ai casolari con le loro misteriose e sempiterne storie. E sotto l’urlo del treno che accelerava come il tempo, Silverio si confuse ai gufi e ai toporagni, strisciò rasoterra con le grillotalpe e volò con le cutrettole scampate ai rapinosi roccoli, rincorse i lupi fuggiti nei secoli con le guardinghe faine e, come riposassero su pellicce di martora, contemplò nei cimiteri il sonno di tutti i suoi contadini morti. E mentre anche le contrade al di là dei confini conosciuti finivan di fuggire assieme a subitanee luci e con le stelle, cominciarono a montargli dentro al cuore desideri di felicità sognate e sconosciute.

Ti sembra forse che io faccia dei discorsi strani nipotina mia, intanto che ti racconto. Ma io sognavo e anche Silverio sognava. E tu ascolta ad occhi chiusi le parole. Sai che le storie cambiano, secondo che le parole suonano.

Intanto si era alzata la luna piena e Silverio cominciò a parlare.

«O luna che mi hai chiamato, eccomi qua come una volta… Ora io so benissimo cosa fai tu luna in cielo, eppure mi disturba che tu sia la stessa luna che stava qua sopra, quando passavo io tanti anni fa e tu non fai neanche l’accenno di una smorfia, adesso che torno col cuore pieno di mostri e rifiuti di tutte le fatte, di cui non t’importa un bel niente».

«Io ci sono perché la gente possa porsi le domande – parve rispondere la luna senza cambiare di espressione –, a patto di sapere che non avranno le risposte».

Intervenne anche l’impiegato postale a fare le sue considerazioni. Aveva acceso il transistor e il vagone fu pervaso della voce di Salvatore Adamo che con cadenza di migrante cantava anche lui, pensa te, La notte. Poi Marisaldi aveva aperto il baule foderato di zinco con il ghiaccio, aveva tirato fuori due belle birre e si era seduto a sua volta davanti al portellone spalancato.

«È inutile che parli alla luna come i matti – commentò –, la luna è così da quando è nato il mondo. Beviti una birra e non farti sangue cattivo».

E così, bevendo birra, cominciarono a parlare dei fatti di tanti anni prima, dello scudetto del Bologna e delle turiste finlandesi nei wagons-lits. Cantarono strascicati con Adamo il rimpianto de La notte, ma dopo qualche birra ancora, cantarono anche a squarciagola:

Éla quàssta l’ustarî
c as màgna ‘s bàvv
e pò’s va vî?

Intanto una tranquillità sognante invadeva Silverio, come se il peso del vivere non gli fosse mai calato sulle spalle.

Ora tu, nipotina, non devi pensare che le cose debbano andare sempre così come a Silverio. Tu sei una bambina grande e giudiziosa. Sarai felice perché pensi bene. Ricordati solo che le risposte, neanche a te potrà darle la luna.

Il treno aveva preso tanta velocità che tutto fuori baluginava e scompariva. E mentre cominciarono a profilarsi le montagne, come grandi orsi addormentati, anche Silverio si sistemò tra i pacchi di lettere e il tettuccio del treno. E al cullare degli scambi si addormentò.

«Dormi tranquillo, che io finisco il borderò», disse Marisaldi, battendo ritmato anche lui sulla scrivania coi suoi timbri.

Bombo

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